A Roma l'arrivo di Starbucks lascia indifferenti tutti, perfino Starbucks

Michele Masneri

Nel 1986, all’apertura del primo Mac d’Italia, la famosa “battaglia di piazza di Spagna”. La guerra dell’establishment contro il fritto

Quindi Starbucks arriverà anche a Roma. La notizia scuote gli animi della capitale. Fronti opposti: chi si indigna per la caffeina straniera (sempre meno, in realtà), chi si consola (dunque Roma non è del tutto fuori dalle mappe occidentali). La differenza con Milano è però il vero grande tema: lì, come è noto, il gruppo di Seattle è sbarcato in autunno, con l’apertura-civetta della grande roastery cioè caffetteria lussuosa (e poi, in sordina, di tre caffetterie vere, quelle col tazzone di cartone e il vostro nome sbagliato scritto sopra).

 

A Roma si salterà la fase lussuosa e si andrà direttamente al tazzone: non ci saranno come a Milano il gazebo e la gigantesca macchina torrefattrice, le decorazioni bronzo e oro, l’“esperienza siphon” cioè il caffè in sifone, e le “experience al brewing bar” che ti propongono i commessi in milanenglish. Nemmeno ci sarà il vasto merchandising local che si trova a piazza Cordusio: i set di tazzine “heritage” in edizione limitata (36 euro), gli oggetti di design con opere di Matteo Cibic (400 euro), la Vespa fiammeggiante del primario designer Kyler Martz (non c’è prezzo). Peccato, perché si sarebbero trovate creatività molto local anche qui: tazzoni limited edition col logo del gabbiano gigante, buche romane rieditate da Anish Kapoor; cavalli rampanti by Casamonica, per esempio.

 

A Roma si salterà anche la fase operazione-simpatia di piantumazione. Se a Milano aveva fatto scalpore il piccolo vivaio di palme piantate a piazza del Duomo con gentile sponsorizzazione, nella capitale il livello di infestanti causa mancato sfalcio non pone problemi di verde urbano; anche di palme, quelle scampate al punteruolo rosso, ce ne son tante, a Prati e al vicino Vaticano. E’ qui che sorgerà la prima caffetteria americana, e già dove è nato un nuovo McDonald’s, a Borgo Pio, causando esposti immancabili del Codacons e proteste anche di porporati, che temono soprattutto la puzza delle micidiali patatine fritte. Come 35 anni fa. Nel 1986, all’apertura del primo Mac d’Italia, nella capitale, vi fu la famosa “battaglia di piazza di Spagna”: il sarto Valentino, dal vicino palazzo Mignanelli, sentiva come i cardinali l’odore delle patatine, e sporse denuncia. Le proteste culminarono in una manifestazione con quattromila persone, compresi Claudio Villa e Giorgio Bracardi, che portarono in piazza un cartello con le fattezze di Clint Eastwood e la scritta “You should be our mayor”, dovresti essere tu il nostro sindaco: Eastwood era infatti il primo cittadino di Carmel, California, da cui aveva bandito i fast food.

 

La marcia dei quattromila non impedì però che il Mac diventasse un classico romano, come non impedirà oggi a Starbucks di diventare un avamposto di cazzeggio per suggere bibitoni sovrapprezzati (ma si sa che nel costo del caffè è inclusa un’accisa su corrente e wi-fi, che copre le ore a bivaccare: non è che ci si vada per la squisitezza dell’arabica). Chissà se ci saranno marce anche oggi, magari capitanate da Castroni, storica torrefazione di Prati; o se la signora Panella, ras delle caffetterie, scenderà in campo. Pare difficile: i romani, fiaccati nella tempra, non hanno reagito nel 2014 neanche allo sbarco di un altro marchio americano, Kentucky Fried Chicken, oggi al quarto ristorante romano (e anche lì si frigge parecchio). Nessuna protesta, nessuno si è indignato: forse perché la puzza di fritto, insieme al profumo del caffè, si mischiano ormai nel generale afrore di monnezza (l’invito a Clint Eastwood, comunque, è sempre valido).

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