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La saga del Big Mac

Maurizio Stefanini

Cinquant’anni fa entrava nei menù dei McDonald’s di Uniontown. Nel 1986 la scelta dell'Economist di trasformarlo in una simbolica “moneta” mondiale

Data fatidica, il 20 settembre. Il 20 settembre del 1870, i bersaglieri entrano a Porta Pia. Il 20 settembre del 1968, i ristoranti di una catena di McDonald’s di Uniontown – cittadina della Pennsylvania a una settantina di chilometri a sud di Pittsburgh – introducono ufficialmente nei loro menù un hamburger composto da “due polpette di carne di manzo, salsa speciale, lattuga, formaggio, sottaceti, cipolle e pane con i semi di sesamo”. Prezzo: 45 centesimi di dollaro. In realtà, il Big Mac era stato già sperimentato nell’aprile del 1967, e un Big Mac Museum per il suo quarantesimo compleanno è stato infatti inaugurato il 22 agosto 2007. A North Huntingdon, sempre in Pennsylvania: con una riproduzione record del panino alta più di quattro metri e varie centinaia di reperti storici afferenti.

 

Ma per il Big Mac la data forse più importante è il settembre del 1986, quando all’Economist pensano di ponderare la quotazione delle valute nazionali attraverso il prezzo di un Big Mac, sull’assunto che si tratta di un prodotto disponibile con le stesse specifiche in almeno 120 paesi. E così un panino diventa una simbolica “moneta” mondiale. Se infatti il tasso di cambio tende naturalmente ad aggiustarsi in modo che un paniere di beni abbia lo stesso costo in entrambe le valute, basta allora comparare il rapporto tra i prezzi del Big Mac in due paesi, per vedere se quel tasso è valutato e sopravvalutato. Sempre nello stesso spirito di “Burgernomics” nel 1997 ancora l’Economist traccia una “mappa della Coca-Cola”: per mostrare una correlazione positiva tra consumo pro capite e benessere di una nazione.

 

Nel gennaio del 2004 aggiunge pure l’Indice Tall Latte: basato sul prezzo comparato di una tazza di caffè di Starbucks. Ma ad esempio l’Italia in questo secondo indice ha potuto essere aggiunta solo adesso, mentre in quello Big Mac è stata da subito. Il primo McDonald’s italiano è infatti aperto a Bolzano – nella centrale piazza Walther von der Vogelweide – il 15 ottobre 1985. E’ vero che questo locale pionieristico ha poi chiuso il 4 luglio 1999, ma intanto il 20 marzo del 1986 era stato inaugurato quello romano di piazza di Spagna, dove tuttora una targa commemora l’evento.

 

Comunque, l’Italia in qualche modo nel Big Mac c’entrava già da prima. Come si chiamava infatti l’imprenditore proprietario di quella catena di locali di Uniontown in cui la ricetta fu elaborata? Jim Delligatti. Trasparentissimo figlio di un oriundo italiano che si chiamava James, e che aveva l’originalità di fare contemporaneamente il ciabattino e il caramellaio. Anche la mamma aveva d’altronde un cognome italiano: Lucille Dandrea. Nato a Uniontown, era stato soldato in Europa durante la Seconda guerra mondiale, ma lo avevano congedato per via di un malanno ai piedi. Il reduce andò così in California, per aprire uno di quei tipici locali americani dove si può mangiare senza scendere dalla macchina. Gli andò bene, e nel 1955 da imprenditore in ascesa ebbe modo di conoscere Ray Croc: il venditore di frullatori che aveva appena comprato il ristorante dei fratelli Dick e Mac McDonald, e che stava pensando di svilupparlo in un sistema di franchising.

  

Nel 1957 Delligatti poté dunque tornare al paesello natale, come detentore di un franchising che sarebbe cresciuto fino a 48 esercizi. E dieci anni dopo, appunto, inventò il Big Mac, che già nel 1969 rappresentava il 19 per cento di tutte le vendite dell’intera firma McDonald’s, e che nel 2016 ha venduto 550 milioni di “pezzi” soltanto negli Stati Uniti. Delligatti non ricevette mai alcuna utilità economica particolare per la sua “trovata”: però gli diedero una targa ricordo. E lui per celebrare – secondo il figlio – mangiava almeno un Big Mac a settimana. Delligatti è morto il 28 novembre 2016. Magari fare colazione, pranzo e cena da McDonald’s tutti giorni fa male, ma con un Big Mac a settimana forse si può arrivare a 98 anni senza problemi!

 

Facendo un ulteriore, lungo passo indietro, troviamo ancora l’Italia nel percorso che porta al Big Mac. La ricetta di un chiaro antenato di un hamburger fu infatti trascritta da Marco Gavio Apicio nel suo “De re coquinaria. Si chiamava “isicia omentata” ed era servita nei “thermopolia”: i fast food dell’Impero Romano. Ovviamente, era carne non macinata nel senso moderno del termine, ma tagliata a punta di coltello. Così si faceva d’altronde tradizionalmente la famosa carne cruda alla piemontese, e secondo i nutrizionisti sarebbe bene che si facesse così ancora ogni volta che si deve “cuocere” col solo limone. Il coltello, spiegano, producendo meno calore del tritacarne, evita lo sviluppo di batteri pericolosi.

 

I dieci anni di collaborazione con Disney. Bové che diventa famoso sfasciando un locale in costruzione. Il G20 ospitato ad Amburgo

La ricetta romana, comunque, mescolava alla carne mollica di pane ammollata nel vino, pepe, bacche di mirto al garum: salsa di pesce allora onnipresente. Assomiglia a quel tipo di polpette, ancora largamente diffuso nella cucina regionale italiana, che la madre di Manzoni preparava in continuazione al figlio, e che anche Manzoni fa appunto comparire nei “Promessi sposi”. “Cara mamma, mi avete fatto mangiare fin da bambino tante di quelle polpette, che ho ritenuto giusto farle assaggiare anche ai personaggi del mio romanzo”, le disse. Un altro nome di riferimento è Attila, i cui cavalieri secondo Ammiano Marcellino mettevano pezzi di carne sotto la sella per farli cuocere col movimento del cavallo al galoppo.

 

Alcuni studiosi moderni ritengono che quel procedimento servisse anche a evitare ai cavalli piaghe da sfregamento. La stessa ricetta è comunque riscontrata nel XIV secolo tra i mongoli dall’avventuriero bavarese Hans Schiltberger, e appunto attraverso la conquista mongola la carne macinata “cotta” attraverso marinatura si diffonde dalla Russia in tutta Europa col nome francese di “tartàre”, assieme alla fama dei russi come grandi mangiatori di polpette. Dal ‘600 principale porto di scalo delle navi russe in Nord Europa, Amburgo diventa famosa come città dove si mangiano – appunto – preparazioni di carne macinata “all’amburghese”. E la ricetta di una “Hamburgh sausage”, che in effetti è un hamburger, appare già nel 1758 in un ricettario inglese: “The Art of Cookery Made Plain and Easy” di Hannah Glasse.

 

Forse perché Amburgo è già la città degli hamburger, è un tedesco che all’inizio del XIX secolo ha l’idea di inventare il tritacarne. E non solo quello, peraltro. Karl Friedrich Christian Ludwig Freiherr Drais von Sauerbronn era un nobile nato a Karlsruhe nel 1785, che in omaggio ai suoi ideali democratici non usò mai il suo interminabile nome aristocratico, preferendo un più plebeo Karl Drais. Proprio per punirlo della sua appassionata partecipazione alla rivoluzione liberale del 1848-49 gli tolsero la pensione, per cui nel 1851 morì in miseria. Oltre al tritacarne aveva però ideato anche la prima bicicletta – che infatti si chiamò draisina; e la prima macchina da scrivere; e la prima macchina stenografica; e la cassa di cottura; e un modello di pianola. Insomma, immaginò un mondo in cui la democrazia si accompagnasse a trasporti di massa, a sistemi per la diffusione rapida della scrittura e del suono, a un nuovo modo di cucinare meno defatigante. Una libertà a più dimensioni.

 

A partire dal contadino francese José Bové, che divenne un riconosciuto leader ecologista e sfasciava i McDonald’s, a Spurlock, negli ultimi decenni è sembrato a volte progressista prendersela con gli hamburger. Ma nel XIX secolo fu quasi fatale che gli Stati Uniti diventassero a un tempo la terra della libertà, delle opportunità e degli hamburger, anche se il percorso esatto non è del tutto chiaro. Da Amburgo a New York andava una delle principali linee di navigazione che portava i migranti europei nel Nuovo mondo. Ma qual è il punto esatto in cui l’hamburger si imbarca? Una tesi è che qualche migrante lo avesse assaggiato nel porto, prima di imbarcarsi. Una ipotesi più suggestiva è che la carne alla piastra fosse un piatto forte nel menù offerto dalla Hamburg Line durante il viaggio. Carnaccia ricavata da ritagli che venivano macinati per recuperarli, presumibilmente.

 

Ma a un’epoca in cui i contadini dell’Italia del nord mangiavano carne una volta al mese e quelli dell’Italia del sud una volta all’anno, un viaggio a base di hamburger tutti i giorni sembrava già un assaggio del paradiso americano. Theodora Fitzgibbon nel suo libro “The Food of the Western World – An Encyclopedia of food from North American and Europe” suggerisce che a appassionarsi di hamburger siano stati in particolare i migranti ebrei, per i quali era una preparazione kosher.

 

Jim Delligatti, figlio di un oriundo italiano, l’imprenditore proprietario della catena di locali in cui la ricetta fu elaborata

Già nel 1826 il ristorante Delmonico’s di New York offre hamburger nel proprio menù. Nel 1885 a una Erie County Fair che si tiene dal 1820 ogni agosto in una città dello stato di New York che peraltro dai suoi fondatori tedeschi è stata chiamata anch’essa Hamburg, due fratelli venditori di panini di nome Frank e Charles Menches a cui sono finite le salsicce hanno l’idea di sostituirle con hamburger. E nel 1915 a Wichita, in Kansas, un altro venditore di nome Walter Anderson crea lo standard di cottura alla griglia e di pane dolce.

 

Nel 1928 Elzie Crisler Segar crea poi Popeye, e nel 1929 con la crisi di Wall Street per gli americani diventa impellente il bisogno di riempirsi lo stomaco a poco prezzo. Nel 1931 nel fumetto appare dunque J. Wellington Wimpy: un insaziabile divoratore di hamburger ispirato a un personaggio che il disegnatore ha veramente conosciuto. Nella traduzione italiana Popeye diventa Braccio di Ferro e J. Wellington Wimpy Poldo Sbaffini, ma gli hamburger sono tradotti come “polpette”. E lo stesso fa un futuro Nobel per la Letteratura come Eugenio Montale quando deve tradurre “La battaglia” di John Steinbeck, anche i macellai italiani già parlano di “svizzere”. Nel 1937 i fratelli McDonald aprono in California il chiosco di hot dog che nel 1940 si trasforma in ristorante e nel 1955 è comprato da Ray Croc per trasformarlo nell’impero di franchising attuale. Nel 1967 apre in Canada il primo McDonald’s fuori dagli Stati Uniti, nel 1971 sbarca vicino a Amsterdam il primo McDonald’s europeo.

 

Dopo che nel 1996 la Walt Disney ha firmato con McDonald’s un rapporto di collaborazione da un miliardo di dollari che dura fino al 2006, nel 1999 Bové diventa famoso sfasciando un locale in costruzione a Aveyron. Ma il 1996 è anche l’anno in cui in America latina viene fondato quel movimento letterario McOndo che si contrappone agli stereotipi folklorici del boom letterario degli anni 60 e 70: McOndo come emblematico rifiuto della Macondo villaggio dove si svolge “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, da parte di una generazione che è cresciuta a pasti da McDonald’s e

Le polpette degli antichi romani e quelle che la madre di Manzoni preparava allo scrittore, e che lui mise nei “Promessi sposi”

computer Macintosh. E già nel 1992 “Jihad vs. McWorld” era stato il titolo di un articolo sull’Atlantic Monthly trasformato in libro tre anni dopo, con cui il politologo Benjamin Barber prevedeva il futuro scontro di civiltà tra globalizzazione capitalista e neo-fondamentalisti localisti. “McDonaldizzazione” fu il termine che nel 1995 il sociologo George Ritzer utilizzò come sinonimo della stessa globalizzazione. Naturalmente, contro i McDonald’s del Venezuela si sono abbattute le sfuriate di Hugo Chávez, ma McCastro’s è il modo sarcastico con cui a Cuba sono stati chiamati i pessimi hamburger locali, fatti con carne di maiale. Nel 2012 McDonald’s ha aperto il suo primo fast food vegetariano in India, dove già si erano inventati il McCurry Pan e il McAloo Tikki: l’uno ai broccoli e funghi; l’altro fatto con patate fritte impanate nella farina di piselli. Ma già nel 2003 per affrontare un calo nel mondo arabo aveva lanciato il McArabia: pane tipo pita, pollo grigliato, lattuga, pomodori, cipolle e maionese all’aglio. Anche se per la verità la pita era fatta in Inghilterra e il pollo veniva dalla Malaysia. E in Giappone c’è l’Ebi-Filet-O, ai gamberetti.

 

Anche in nome dell’hamburger come icona di globalizzazione, nel 2017 Angela Merkel ha scelto di ospitare il G20 a Amburgo, piuttosto che a Berlino o a Monaco. E a 19 anni dal blitz di Bové, sempre in Francia, a Saint Barthelemy, quartiere disagiato di Marsiglia nord, i sindacati si sono mobilitati e un sindacalista di origine maghrebina ha minacciato di darsi fuoco, per protesta contro la possibile chiusura di un locale McDonald’s per trasformarlo in un ristorante halal per musulmani.

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