Il logo di Facebook riflesso nell'occhio di una persona (foto LaPresse)

Oltre lo scandalo Facebook: l'uomo è ciò che sceglie

Estorti o no, i profili di Cambridge Analytica seguivano i dogmi del comportamentismo amati dai progressisti

New York. Facebook è stretta all’angolo dell’opinione pubblica e impegnata a gestire un grandioso attacco di panico, Cambridge Analytica è vilipesa e decapitata, stretta fra le inchieste ienesche di Channel 4 e le soffiate di una talpa presentata dalla stampa mondiale come un Solgenitsin con i capelli rosa. I tribunali diranno se e quali leggi sono state violate nel passaggio di dati incredibilmente profilati ottenuti con un sistema di inganni e sotterfugi sotto il naso della più importante infrastruttura digitale della storia, un impero costruito sulle fondamenta della profilazione, ma rimanendo alla dimensione culturale e filosofica dello scandalo si può dire che Cambridge Analytica si è scrupolosamente attenuta alle leggi dell’ideologia comportamentista, il verbo dominante nell’èra dell’analisi massiccia dei flussi di dati. Sono i comportamentisti che progettano un mondo migliore fatto di “spintarelle” al popolo verso azioni virtuose, che con forme morbide di paternalismo conducono verso la massimizzazione del bene sociale, sono loro che hanno colonizzato gli uffici dove si progettano le politiche pubbliche e la loro scuola di pensiero è stata promossa e valorizzata in massimo grado da Barack Obama, che si è circondato da teorici comportamentisti, a partire da Cass Sunstein, rockstar del genere. Sono loro che vincono i Nobel per l’Economia, come accaduto lo scorso anno a Richard Thaler.

 

La concezione antropologica implicita nel comportamentismo è che l’uomo consiste nella somma delle sue scelte, delle sue preferenze. Si oppongono, i comportamentisti, all’idea che l’uomo sia un puro animale economico, e anzi tutto l’impianto di pensiero si basa sul fatto che le persone fanno scelte irrazionali, antieconomiche, dettate dalle passioni o dalla pigrizia, si affidano alle opzioni di default, preferiscono conservare lo status quo anche quando non conviene. La mappatura di questi complessi pattern di preferenze permette di capire il comportamento umano, e quindi eventualmente di correggerlo sotto il segno dell’efficienza, raddrizzando il legno storto se non proprio dell’umanità, almeno del suo rapporto con le bibite gassate.

 

L’idea sottesa a questa impostazione è che i comportamenti siano leggibili, interpretabili e prevedibili in quanto radicati nella psiche e dunque deterministicamente ricavabili con un sofisticato piano di studio dei processi e dei profili psicologici. Parte dell’oltraggio pubblico intorno all’operato di Cambridge Analytica deriva dai metodi estremamente aggressivi con cui ottenevano i dati, ma parte deriva anche dal tipo di informazioni “qualitativamente diverse” rispetto alle campagne tradizionali, come ha detto ieri il giornalista Sasha Issenberg, che andavano a cercare. Erano esploratori dell’inconscio alla ricerca di profili “psicografici”, mappavano inclinazioni nascoste e patologie dormienti da attivare poi con input adeguati. La pervasività clinica del loro lavoro – che infatti era talvolta travestito da ricerca scientifica, perché certe cose sono difficili da dedurre perfino dallo sterminato magazzino di dati di Facebook – è stato uno dei fattori che hanno contribuito all’inquietudine dell’opinione pubblica (assieme ovviamente a quello politico), ma i ricercatori si sono attenuti scrupolosamente ai dogmi del credo comportamentista, hanno portato le premesse alle loro estreme conseguenze, tuffandosi nel sostrato psichico che secondo questa visione umana è il fondamento unico di ogni preferenza e azione. Volevano essere i veri e definitivi “architetti della scelta”, come li chiama Thaler, quelli che “hanno la responsabilità di organizzare il contesto in cui le persone prendono le decisioni”.