"#DeleteFacebook" è il grido di riscossa anti social

Paola Peduzzi

Uscire dal social network è la nuova battaglia civile. Ma non è facile lasciarlo, soprattutto se poi ti manca

Milano. Il giorno che decidi di andartene e vuoi sbattere la porta perché tutti si voltino, ti accorgi che non è semplicissimo: per i “ti lascio” c’è una procedura precisa. Se vai a vedere i tanti articoli-manuali su come abbandonare Facebook – al grido #deleteFacebook o #boycottFacebook, non sia mai che ci si pianti con compostezza – scopri che, per essere definitivo, serve un giorno di ferie. Devi prima scaricarti tutto quello che hai postato negli anni, poi andare a cercare “delete”, azione irreversibile che Facebook non inserisce tra le sue impostazioni principali, e infine aspettare. La procedura richiede novanta giorni, ma nel frattempo i commenti lasciati in giro restano (anche dopo, probabilmente), e se per caso nei primi tre giorni ti riaffacci sul social, per curiosare o perché l’assenza pesa, Facebook si convince che tu abbia cambiato idea, sei tornata!, e annulla la procedura di abbandono. Bisogna essere molto determinati e soprattutto – dicono gli attivisti più radicali – coerenti: se lasci Facebook, devi lasciare anche Instagram e Whatsapp, che sono di proprietà di Facebook (mercoledì il cofondatore di Whatsapp, Brian Acton, ha twittato: “E’ arrivato il momento #deleteFacebook”). Mentre molti giornali internazionali pubblicano editoriali (e copertine come quella che vedete a sinistra) chiedendo se sia ormai necessario uscire da Facebook, alcuni propongono già una variante soft, intuendo che tutto questo boicottaggio sociale contenga elementi controproducenti: la solitudine prima, l’impulso a trasferirsi con il proprio patrimonio di profilo da un’altra parte poi, in mezzo un certo disagio, ché nessuno ci ha mai obbligati di fatto a usare Facebook, ci piaceva farlo. La variante soft sembra allora salvifica: puoi andare a controllare tutte le impostazioni che negli anni hai modificato, puoi rileggere i consensi per il trattamento dei dati, puoi vedere se, in qualche momento di distrazione, hai sciaguratamente detto sì a chissà quale richiesta, che ha permesso che il tuo piccolo mondo di selfie, commenti, cambio-foto-bacheca, dichiarazioni d’intenti diventasse materiale buono per dottori Stranamore di dubbia provenienza. 

 

Su BuzzFeed, Nicole Nguyen ha stilato una serie di accorgimenti per chi non se la sente di andarsene del tutto da Facebook, e il primo è significativo: cambia le tue abitudini. Più perdi tempo sul social più si definiscono i tratti della tua personalità, quindi è meglio che non fai sapere tutto, cerca di contenerti, passa e vai. Fa sorridere che, quando siamo colpiti da attentati terroristici violenti mentre siamo a un concerto, ripetiamo orgogliosi: non cambieremo nulla delle nostre abitudini, ci piace uscire, ballare, innamorarci, cantare, e continueremo a farlo. Con Facebook invece cambiare le proprie abitudini è la prima regola dell’autodifesa da un nemico che certamente sa usare benissimo le proprie armi – sempre più al limite della cintola anche se lo nega – ma che in ogni caso utilizza armi che gli abbiamo deliberatamente fornito noi. E quando leggi tweet che dicono “it’s not me, it’s you #deleteFacebook” capisci che l’isteria ci ha un po’ preso la mano.

 

Nel linguaggio degli attivisti anti Facebook si intravvedono espressioni che sono utilizzate in altri contesti, in altre battaglie, battaglie per i diritti, con qualche deformazione isterica. “E’ arrivato il momento” è una trasposizione di “Time’s up”, il movimento femminile di protesta contro le molestie sessuali nato dopo il caso Weinstein, venti milioni di dollari raccolti, finora: ne abbiamo avuto abbastanza, è ora di organizzarci e di muoverci contro gli aggressori (e una volta che abbiamo fatto massa chissà, magari ci scappa anche qualche occasione politica). Con l’unica ma rilevante differenza che qui, nel mondo di Facebook in cui abbiamo sguazzato gioiosi a caccia di amici e di mariti, l’aggressione non c’è stata. O meglio: c’è forse un abuso di potere da parte del social network, che potendo controllare le informazioni ha adottato metodi sempre più spericolati per rafforzare la nostra dipendenza e i suoi profitti, ma non c’è un aggressore. Non c’è la Stasi che si intrufola: ci intrufoliamo noi. Questa resipiscenza improvvisa, ora basta ci ribelliamo, ora basta ce ne andiamo, ti lascio e ricordati: senza di me non sei nessuno, mostra l’ipocrisia più grande di tutte. Hai voglia a cambiare le tue abitudini, hai voglia a controllare app per app tutto quello che hai detto e fatto e propinato, hai voglia a uscire dal gruppo per non sentire più l’eco dei tuoi stessi pensieri: dovrebbe passarti la voglia di socialità che hai, prima di tutto. Forse finiremo davvero per trasferirla altrove, è difficile pensare che svanisca tutto d’un colpo per tutti, e magari ci assicureremo che le regole del gioco siano più trasparenti. Ma intanto provare a mettere una toppa su quel che abbiamo mostrato di noi fa un effetto un po’ strano, come quelle donne che sono andate a casa di uno, la serata non è andata benissimo e poi dicono che era molestia.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi