Matteo Berrettini (a sinistra) stringe la mano a Roger Federer, al termine di un incontro delle Atp Finals 2019 a Londra (foto LaPresse)

C'era una volta il Masters (e che Masters)

Stefano Meloccaro

Perfetti, muscolari e ripetitivi, i tennisti di oggi sono più forti ma meno divertenti di quelli di ieri

Se vuoi fare il figo e dimostrare che ne sai di tennis, devi chiamarlo Masters. Anche se, dal 1970 in poi, il torneo ha cambiato nome (e sede) svariate volte. L’ultima denominazione ufficiale, da un paio d’anni, è ATP Finals, ma il succo è rimasto lo stesso di 50 anni fa. Solo gli 8 migliori, 2 gironi all’italiana, semi e finale per decretare Il Maestro dei Maestri. Puro estratto di qualità, anche solo esserci ti cambia la vita. Per info citofonare Berrettini, che dopo un quarantennio, ha riportato un italiano nel più esclusivo dei club. Non accadeva dall’epoca di Panatta e Barazzutti. Correvano gli anni Settanta-Ottanta, eravamo in piena Golden Era del nostro sport. Sussulto di nostalgia (canaglia), voglia di rivangare quel tempo indelebile, tuttora scolpito nella mente degli appassionati. Masters di New York, Madison Square Garden, vengono i brividi solo a pensarci. Ilie Nastase. Bjorn Borg. Jimmy Connors. John McEnroe. Ivan Lendl. Solo alcuni tra i nomi più iconici. Ai quali aggiungere Vitas Gerulaitis. Guillermo Vilas. Stan Smith. Roscoe Tanner. Comprimari per modo di dire. Il quadro è largamente incompleto, ma insomma. Un’idea è possibile farsela. Altro mondo, altro periodo, altro tennis. Certo imperfetto, rispetto al modello Playstation attuale, ma grondante di personalità, maledetto e riconoscibile. Ognuno dei succitati aveva almeno un punto di relativa debolezza. La loro vulnerabilità era però l’essenza stessa del loro fascino.

 

I moderni, al contrario, sono tutti pressoché perfetti, bionici, privi di sbavature. Dunque simili, tanto forti (anzi fortissimi) quanto sovrapponibili. Diciamoci la verità, era un tennis più divertente. Nel complesso si giocava peggio, ma lo spettacolo era di altra categoria. Un apparente paradosso, che si spiega dividendo il ragionamento in due. Da un lato, il discorso tecnico puro. Dall’altro, l’analisi sui personaggi, lo show, il fascino degli scontri. Se parliamo di tennis e solo di tennis, non c’è confronto. Con le vecchie racchette di legno la palla faceva “pof”, come dice Adriano Panatta, ma viaggiava la metà. Di conseguenza si correva meno, i muscoli servivano a poco, l’intensità era bassa, assai inferiore a quella di oggi. Insomma, gli ultimi arrivati sono sempre più forti dei precedenti. Vale per tutti gli sport, a maggior ragione per il tennis. Al netto del sentimento, Djokovic batte il miglior Connors 6/1 6/1 6/1 e Nadal riserva lo stesso trattamento a Borg. Oltre ogni ragionevole dubbio. Adesso però mettiamo da parte la biomeccanica e ragioniamo di fascino, atmosfere, contrapposizione di stili. Anche stavolta non c’è storia, ma al contrario. Gli antichi surclassano i contemporanei. Vogliamo paragonare, giusto per fare un esempio, il temperamento focoso di McEnroe con l’aplomb regale di Federer? Il carisma enigmatico di Borg con i sorrisetti isterici di Murray? Quel tennis raccontava una telenovela diversa ogni partita. Molti tra loro si odiavano sul serio e non facevano nulla per nasconderlo. Giocavano con stili diversissimi, si sfidavano anche sul piano dialettico. Davano spettacolo, si divertivano da pazzi. Con loro il pubblico, allo stadio e in tv. La realtà è che, dagli anni 2000 in poi, si somigliano un po’ tutti. Federer a parte, col suo rovescio a una mano ormai quasi estinto. Il resto della compagnia è tristemente uniforme, nello stile di gioco e nel comportamento. Colpa di professionismo estremo e vil denaro. E della sempre minore voglia di incasinarsi, con atteggiamenti o dichiarazioni scomode. Sparute eccezioni: le mattane di Fognini, la schizofrenia di Kyrgios, le recenti scaramucce col pubblico newyorkese di Medvedev. Robetta, insomma, rispetto a Nastase che assesta un’asciugamanata in faccia a uno spettatore reo di averlo insultato. Per di più, a Wimbledon! C’è poca fantasia, in giro.

 

Negli anni 70, e fino alla metà degli 80, non vinceva il più preparato fisicamente, ma quello che si inventava la cosa giusta al momento giusto. Poi la fibra di carbonio soppiantò il legno. Beninteso, le rivoluzioni tecnologiche sono avvenute in tutti gli sport. Questo ragionamento potrebbe essere esteso al calcio, alla Formula 1 e a tante altre discipline, ma nessuna di esse è mentale quanto il tennis. Cerebrale, psicologico e violento come il pugilato, ma senza cazzotti. Gli stessi che, avesse potuto, McEnroe avrebbe mollato in faccia a Connors, e viceversa, in ogni occasione possibile. Due galletti (americani) in un solo pollaio non potevano coesistere. Un paio di volte dovettero separarli davvero, nei pressi della rete. Una goduria per gli spettatori. E non si trattava certo di un caso isolato. Proprio durante un Masters, correva l’anno 1981, sempre Connors – antipatico per antonomasia – urlò in faccia a Lendl (in modo udibile a tutti) che era un codardo, perché gli aveva mollato il match senza lottare, in modo da evitare Borg in semifinale. Al tempo funzionava così. Facevano quel che gli pareva, senza riflettere troppo sulle conseguenze. Il più scalmanato era Ilie Nastase. Che il Masters lo vinse 4 volte, più un paio di Slam. Sempre poco, visto il talento smisurato che si ritrovava. Atleta sublime, capellone, fattucchiera, istrione, mattatore. Uno che si procura un gatto nero e lo libera in campo per destabilizzare il superstizioso Adriano Panatta. Il quale, infatti, dette di matto. L’aneddotica sul rumeno è infinita. Il già citato Connors fu anche suo compagno di doppio. Smisero di far coppia quando il totale delle multe superò (di molto) il montepremi. Una volta simularono un atto sessuale sul campo, per festeggiare un bel punto vinto. Nick Kyrgios, il più famoso bad boy del nostro tempo, è un’educanda, in confronto. Nastase però era un cattivo di estrazione clownesca, Jimbo ci metteva una tigna più scorretta ancora. Primo a esultare platealmente sugli errori dell’avversario. Oscar per il miglior insulto di sempre a un arbitro: “Se penso una parolaccia mi puoi squalificare? No? Allora penso che tu sia un fottutissimo stronzo”. Un geniale buzzurro dell’Illinois, col dritto che spesso andava in pezzi. John McEnroe, invece, difetti di gioco non ne aveva. Il suo problema, casomai, era il carattere. Nell’immaginario collettivo, le sue sfuriate sono leggendarie al pari del tocco vellutato. A Wimbledon riuscì a litigare pure col ciclope, progenitore dell’odierno occhio di falco. Supermac, all’occorrenza, sbroccava pure con le moviole, oltre che con l’arbitro. Del suo grande rivale Ivan Lendl – non si amavano in modo particolare, eufemismo – ebbe a dire: “Ho più talento io nel mio mignolo che Lendl in tutto il suo corpo”. Quasi uguale al politically correct dominante del nostro tempo, insomma. Vanno capiti, i ragazzi di oggi. Sono talmente circondati da soldi, regolamenti e clan che non riescono quasi a respirare. Figuriamoci se si mettono a litigare o polemizzare con un collega. Non gli converrebbe, primo. Gli farebbe perdere tempo ed energie, secondo. Il livello è talmente uniforme (verso l’alto, per carità) che se ti fermi a sorridere un minuto, l’altro ti ha già preso un set e un break di vantaggio.

 

Nulla è lasciato al caso, a partire dalla selezione primaria. È il DNA a decidere cosa sarai da grande. Potrai diventare un professionista solo se nasci atleta, vivi da atleta, pensi da atleta. Il resto del lavoro lo fa la mente. Quelli di oggi hanno il cervello settato per competere. In caso di malfunzionamento, c’è lo psicologo sportivo. Quelli di ieri, dopo il torneo, si andavano a fare un paio di birre al pub. Cenavano insieme, poi tutti in discoteca. Oggi stanno col clan. Allenatore, preparatore fisico, fisioterapista, mental coach, manager, famiglia, fidanzata. Non è la stessa cosa. Panatta nel ’79 arrivò nei quarti a Wimbledon dopo un weekend in Sardegna. Era lì per allenarsi, mollò tutto e rientrò in Inghilterra a torneo già iniziato. Dice che lo fece per staccare, perché non sentiva la palla. Poco ci mancò che alzasse la coppa. Al tempo funzionava così. È per questo che, se vuoi fare il figo e dimostrare che ne sai di tennis, devi chiamarlo Masters. Anche solo per dimostrare che ne sai, di quel tennis imperfetto e irripetibile.