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In difesa di Djokovic, il dio del tennis che perde anche quando vince

Giorgia Mecca

Quella di Wimbledon è stata una finale perfetta, ma il pubblico voleva un altro risultato

C’era anche lui sul Centrale dell’All England Club. E non era un intruso, ma il vincitore. Novak Djokovic, a trentadue anni, ha conquistato per la quinta volta il torneo di Wimbledon, vincendo una delle finali più belle di sempre. Quattro ore e 57 minuti di partita, cinque set e 203 punti conquistati. Eppure non bastano mai. Nel tennis la storia continuano a farla gli sconfitti, gli avversari.

 


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E non importa quanto siano veloci i suoi piedi, le risposte vincenti a servizi che contro chiunque altro sarebbero stati ace, la sua capacità di difendersi e di contrattaccare: gli applausi nei suoi confronti sono quasi tutti di circostanza.

Ma cos’altro deve fare il giocatore serbo per farsi amare? E’ il numero uno al mondo da 260 settimane, ha vinto sedici titoli del Grande Slam in undici anni (il primo nel 2008), è l’unico giocatore ad avere vinto tutti i Masters 1.000, eppure la sensazione prevalente è che Nole sia sempre il terzo incomodo, l’ospite non richiesto arrivato per rovinare uno dei più grandi incastri della storia dello sport. Domenica pomeriggio non era suo il nome a cui il pubblico urlava “Come on!”. Lo ha capito appena è entrato in campo, in realtà lo sa da sempre.

“Quando la folla urlava un nome, io sentivo il mio”. Ed è così che è riuscito a rimanere dentro la partita senza perderne mai il controllo, con gli occhi spiritati dall’inizio alla fine, furioso e solo. La sua rabbia, trattenuta e sacrosanta, è stata ciò che l’ha tenuto in piedi, che gli ha permesso di salvare due match point e di continuare a giocare. Nessuno prima di lui è riuscito a conquistare una finale sull’erba dopo essere stato a un punto dalla sconfitta.

 

Umiliato e offeso senza ragioni, Novak Djokovic per riuscire ad anestetizzare la frustrazione non poteva fare nient’altro che vincere.

Le statistiche non riescono a infrangere le questioni di cuore. Le percentuali degli scontri diretti lo vedono superiore a tutti i suoi rivali, ma l’epica si fa sempre altrove, lontano da lui.

 

Figlio di un dio del tennis minore, il giocatore serbo, che dal 5 novembre scorso è tornato a essere il più forte di tutti gli altri per distacco, domenica ha ottenuto ciò che si è meritato. Nello sport vince sempre il migliore. Non è estetica e non è un’esperienza religiosa, non è carisma e non è letteratura. Molto più concretamente, è il risultato che viene indicato alla fine di una partita.

In una finale equilibrata, il serbo ha realizzato quindici punti in meno del suo avversario ma è stato più efficace, li ha conquistati nei momenti più importanti. Il sangue freddo quando conta. A decidere la partita sono stati i tre tie break del primo, del terzo e del quinto set: su trentatré punti giocati, Djokovic non ha commesso neanche un errore non forzato, dall’altra parte della rete ne sono invece arrivati undici. “Mentalmente è stata la partita più faticosa della mia carriera”, ha dichiarato alla fine della partita. E’ doloroso e frustrante giocare e provare a vincere quando tutti vorrebbero vederti perdere. La leggenda del tennis non è mai lui, ma chi gli sta di fronte. Nessuna Rumbe in the jungle, bisogna essere in due perché la rivalità diventi storica. Djokovic è un’ombra che si aggira, continua a giocare per cercare vendetta. Domenica pomeriggio l’ha trovata, giocando un match perfetto, senza sbavature e senza cedimenti. Fuori dal campo si può fare filosofia, si possono considerare vittorie anche le sconfitte. Ma lo sport è molto più pragmatico, l’anagrafe non è un alibi e le sconfitte sono sconfitte. Ha ragione soltanto chi vince.

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