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Il segreto di Wimbledon

Stefano Meloccaro

Almeno una volta nella vita bisogna andarci. Breve guida alla poesia del torneo di tennis più bello del mondo

C’è una cosa che ogni appassionato di sport deve fare almeno una volta nella vita. Anche se non sa nulla di tennis. Andare a vedere Wimbledon, possibilmente durante la prima settimana del torneo. Va bene anche la successiva, ci mancherebbe, ma i giorni iniziali hanno qualcosa di speciale, ti fanno capire meglio. È questione di erba, intonsa e luminescente, nei rettangoli non ancora maltrattati e ingialliti dalle zampate dei tennisti. Le zolle sono incastrate al loro posto, tra un paio di giorni non sarà più così. A proposito, 8 millimetri. Non uno di più né uno di meno, la si taglia alta 8 millimetri, l’erba. Colpisce poi lo scoppiettio incessante di racchette su palle, in ogni dove. Sui campi e tra i vialetti fioriti, perché si giocano mille partite in contemporanea. Tutto trasuda tennis e ti resta impresso indelebile nella memoria. Ogni angolo merita uno scatto, una riflessione, un approfondimento. Il profluvio geometrico dei fiori, le corde bianche tra gli occhielli dorati a delimitare spazi, le panche di legno che corrono lungo i campi più periferici. Non è facile trovare posto sul Centre Court, ma in quei giorni si assiste da vicino a partite spesso memorabili, giocate nei luoghi più reconditi. Non sempre dai più altisonanti, ma il bello è proprio questo. A Wimbledon non è mai questione di cognomi, piuttosto di volumi.

 

La cosa che colpisce di più lo spettatore occasionale – ma anche l’addetto ai lavori che torna dopo qualche tempo – è sempre il suono ovattato, di tutto. La palla che tocca terra, gli applausi delicati in tribuna, il brusio della gente davanti al maxischermo, gli oooh di meraviglia dopo un colpo spettacolare o se qualcuno scivola a terra. Nessun rumore è mai molesto a Wimbledon. Può capitare di trovarsi a 10 metri dal campo centrale durante la finale e percepire dall’esterno solo silenzio. Là dentro stanno scrivendo la storia, e da fuori non si sente nulla. Non si sa come, ma qui accade davvero. Certo, l’appassionato conoscitore del gioco cerca in ogni modo di procurarsi un tagliando per i campi più importanti, con l’obiettivo di godersi da vicino il suo prediletto. Ma se non dovesse riuscirci poco male, l’atmosfera generale appaga lo stesso. Il prezioso biglietto si può comunque conquistare in vari modi. Il principale è quello di provarci col sorteggio, sul sito ufficiale di Wimbledon. Se hai un colpo di fortuna, te lo mandano a casa per raccomandata. Pagandolo, ci mancherebbe. Alternativa bohémienne è mettersi in fila la sera prima, il famoso queueing, che qui incontra ancora moltissimo. Ma ci vuole il fisico, e parecchio. Dopo una notte all’addiaccio (portare una tenda è consentito) varcherete i sacri Doherty Gates col sole già alto. Se sarete sopravvissuti, beninteso. Ove mai vi accontentaste di una mezza giornata, giusto per respirare l’aria del posto, andate sul re-selling, i biglietti usati che vengono rimessi in vendita a metà pomeriggio. Compresi quelli degli spettatori deceduti dopo aver dormito sul marciapiede la notte prima. Poi, si sa, a Wimbledon i miracoli posso sempre verificarsi. A me una volta è capitato uno che uscendo mi ha detto: toh, ti cedo il mio per il Centrale, mi sono stufato e me ne vado. Gli inglesi sono strani, lo si sa. Però, la passione smodata che hanno per Wimbledon è contagiosa. Per loro non è tennis, è un irrinunciabile rito collettivo. Come da noi la processione del santo patrono. Per i credenti un dovere religioso, per gli altri una cerimonia pagana e un segno di appartenenza. Oltre che di amore per le cose belle. Gli inglesi hanno una vera cultura sportiva, riempiono il Club a prescindere, pure durante i decenni in cui non vince nessuno dei loro rappresentanti. E comunque, Murray è britannico quando alza la coppa e scozzese quando perde, vale sempre. Spalti gremiti anche per l’ultimo dei doppi misti tra una coppia uzbeka e una nordcoreana. Roba che altrove non guardano manco i parenti stretti di quelli in campo. Poi ci sono i tetti, che fino a qualche anno fa solo se ce lo avessero detto, sai le risate. Invece, prima lo hanno costruito sul Centrale, per vedere l’effetto che fa. Verificato che funge sia in caso di pioggia che di oscurità, hanno bissato sul Campo 1. Storia e futuro sempre a braccetto, e qualche contraddizione. La domenica di mezzo non si gioca, per tradizione. Anzi sì, se la prima settimana è stata molto piovosa. Sui campi niente volgari scritte pubblicitarie come negli altri Grand Slam. Gli sponsor ci sono, eccome. Ma discreti, quasi nascosti, dato che qui l’eleganza non è importante, è l’unica cosa che conta. Il bianco obbligatorio dei tennisti in qualsiasi altro posto li assimilerebbe a degenti dell’ospedale generale provinciale. A Wimbledon li trasforma in creature celestiali, purezza stilistica assoluta.

 

Qualche anno fa a Roger Federer hanno fatto cambiare le suole delle scarpe perché erano arancioni. Le suole delle scarpe. Ma Serena Williams giocava con delle culotte fucsia che si vedevano da Liverpool. Sessismo al rovescio. Le palle usate vengono rivendute a mo’ di souvenir in un apposito shop, per finanziare la fondazione benefica del Club. I gadget e le fragole con panna costano una fortuna, ma tanto Wimbledon capita solo una volta l’anno, vale la pena svenarsi. Il Pimm’s scorre a fiumi, e non è così cattivo come si dice. Una specie di sangria light, dispensata come acqua minerale. Quando arrivi in metropolitana la fermata giusta è Southfields, i principianti non lo sanno e scendono a Wimbledon Park, quella dopo. Un classico. Da qualche anno uno dei principali partner commerciali del torneo è Lavazza. Il che risolve il principale dei problemi dell’italiano medio in viaggio di piacere a SW19. Un caffè dopo la settima ora consecutiva di tennis in tribuna ci sta bene. SW19 è il cap londinese del quartiere, uno dei sinonimi più usati per non ripetete sempre la parola “Wimbledon”. Che però è bella quanto questo posto, pieno di gente variopinta, signore panciute col cappellino, giovanotti coi capelli strani, boccali di birra in plastica da gettare negli appositi contenitori per il riciclo. C’è anche l’orchestrina jazz, che a metà pomeriggio suona nel villaggio dietro il Centrale, non distante dalla statua di Fred Perry. Che fu l’ultimo britannico a vincere il torneo maschile prima di Andy Murray. 77 anni prima, per essere precisi. È una delle cose da sapere, se decidete di fare un salto a Wimbledon. Sempre tenendo a mente che la prima settimana è la migliore, ma pure la seconda va benissimo.

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