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Qualche libro per capire il tennis

Mauro Berruto

"Il tennis è ben più di uno sport. È un’arte, come il balletto. O come il teatro". Parola di Bill Tilden. Da David Forster Wallace a Matteo Codignola, racchette e parole

"Il tennis è ben più di uno sport. È un’arte, come il balletto. O come il teatro. Quando scendo in campo mi sento come Sarah Bernhardt. Vedo le luci della ribalta, sento i gemiti del pubblico”. Parole di Bill Tilden, uno dei giocatori più incredibili della storia del tennis, che dominò la scena fra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Tennisti: gente strana il cui campo è, senz’altro, prima di tutto un palcoscenico. Parliamo dunque di questo sport nobile e antico e, siamo certi, non vi aspetterete la scontata proposta di Open, di Andre Agassi, per conoscere il tennis da un punto di vista, diciamo, alternativo. È una splendida autobiografia e va assolutamente letta, ma c’è un libro che precede Open di tredici anni e che, probabilmente, ne crea i presupposti. È un romanzo di oltre mille pagine, scritto nel 1996 da un intellettuale che ha dedicato una grande parte della sua opera monumentale a parlare di tennis e di tennisti. Si tratta di David Foster Wallace e del suo Infinte Jest (Einaudi, 2016). Romanzo geniale, folle, sperimentale, di un letterato che scrive di tennis non solo come metafora dell’agonismo nella società statunitense o delle “infinite soluzioni in uno spazio finito”, ma come sua unica esperienza reale di vita vissuta in mezzo a ossessioni che lo perseguitano. Lo fa ambientando parte della sua opera in un’accademia di élite per giovani tennisti. Wallace, che è stato un tennista giovanile promettente e conosce bene i ferri del mestiere, finirà per fare anche del tennis un’ossessione di pensiero e di scrittura, di analisi e di osservazione lungo tutto l’arco della sua vita. Infinite Jest parla di tennis e, in particolare, di formazione, sviluppo e frustrazione del talento tennistico, in forma genialmente ironica e penetrante. David Foster Wallace è, grazie a Infinite Jest, uno dei padri fondatori dello storytelling sportivo, una sorta di giornalismo a realtà aumentata dal retroterra culturale e dalle contaminazioni dei grandi intellettuali.

 

Dunque, ora che ci siamo bagnati nel mare delle storytelling tennistico, nulla di meglio che immergerci e nuotare, in apnea, nel libro di Matteo Codignola: Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 2018).

 

Bisognava già essere grati a Codignola per aver curato un piccolo gioiello di letteratura sportiva, scritto da John McPhee (Levels of the Game, nella versione italiana: Tennis, Adelphi, 2013) dove oltre al virtuoso esercizio di raccontare un match fra Arthur Ashe e Clark Graebner attraverso i loro stessi occhi e pensieri, si narra della meravigliosa virtù di Robert Twynam, giardiniere del Centrale di Wimbledon. Che incanto sapersi prendere così ben cura di un pezzetto di mondo!

 

Matteo Codignola ama così tanto il tennis (e la letteratura) da regalarci oggi una nuova carrellata di storie. Ventuno capitoli, che partono da ventuno fotografie di agenzia degli anni Cinquanta, ritrovate nella valigia di un collezionista. Ventuno storie di artisti della racchetta: Torben Ulrich che nel frastuono degli stadi di tutto il mondo cercava il suono perfetto della palla sulle corde, Art Larsen che seguiva solo le indicazioni del proprio coach immaginario, un’aquila appollaiata sulla propria spalla o Jaroslav Drobny capace di vincere una medaglia d’argento ai Giochi Olimpici di St. Moritz come attaccante della Nazionale cecoslovacca di hockey su ghiaccio e poi due volte a Roland Garros e una a Wimbledon.

 

Tennisti, certo, ma prima di tutto performer. D’altronde non credo si possa definire diversamente uno come Ilie Nastase detto Nasty che, durante una delle sue insopportabili manfrine alle urla di uno spettatore che gli chiedeva “di smetterla di fare tutto quel cinema”, si avvicinò guardandolo dritto negli occhi e rispose: “Ah, Monsiuer, je vous en prie. Je vous en prie…. Poi, con uno sguardo fra il sofferto e l’oltraggiato accompagnato da un inchino: “Je fais du théâtre!”.

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