Al centro Oracene Williams, madre di Serena Williams (foto LaPresse)

Iniziano gli Open di Australia. Con le mamme in prima fila

Giulia Medina

Complicati, distruttivi, fondamentali e ossessivi. Breve storia dei rapporti tra i grandi tennisti e i propri genitori. Quelle occhiate verso la tribuna dopo ogni punto

Quando Serena Williams aveva otto anni portava treccine colorate in testa e nella vita non aveva fatto nient’altro che respirare e giocare a tennis. Papà Richard, sempre al suo fianco come un’ombra invadente ma rassicurante, ogni pomeriggio si piegava sulle ginocchia per raggiungere l’altezza della bambina e guardando sua figlia come ogni padre guarda la propria figlia le diceva: “Respira. Colpisci la pallina come se stessi giocando sul centrale di Flushing Meadows. Ecco Serena, questa sei tu agli Us Open”. Serena non ha mai dimenticato queste parole, nemmeno oggi che ha 37 anni e sta per cominciare gli Australian Open – iniziano lunedì 14 gennaio a Melbourne – dove la tennista statunitense ha vinto il suo ultimo titolo Slam, il ventitreesimo, nel 2017, quando era incinta di sua figlia Alexis Olympia Ohanian jr. “La persona più importante della mia carriera è stata mio padre”, ha detto la Williams “Tutto ciò che sono deriva da una sua idea. Questa sua idea folle ha cambiato lo sport e forse anche un po’ il mondo”. Roger Federer, Rafa Nadal, Novak Djokovic, Andy Murray, Maria Sharapova; prima di loro Jimmy Connors, Andre Agassi e Martina Hingis: sono tutti grandi e grossi, forti e vincenti, ma ogni volta che alzano gli occhi dal campo hanno bisogno di incrociare lo sguardo di mamma e papà.

 

 

Jimmy Connors (foto LaPresse) 

 

E non importa quanto hanno vinto e viaggiato, le rughe, i trent’anni e l’abitudine, i campioni vogliono i loro genitori sempre sugli spalti ad applaudire, commuoversi, fingere che tutto vada bene e mordersi la lingua, trattenere il respiro, soffrire in silenzio, rimanere impassibili. Non è facile essere genitori e non è facile essere figli. Cosa ne sarebbe stato del tennis negli anni Settanta se la mamma di Jimmy Connors fosse stata meno ossessiva e irrazionale? Appena aveva scoperto di essere incinta, Gloria Connors aveva costruito con le proprie mani un campo da tennis e si era messa a studiare: suo figlio sarebbe diventato il numero uno del mondo, era una sua decisione, non ammetteva repliche. Quando avevo cinque anni Jimbo assecondava tutte le richieste di Gloria, che gli stava insegnando a vivere e a giocare con poche parole e molti allenamenti, troppi: “Lì fuori è una guerra, e in guerra o uccidi o verrai ucciso”, era questa l’unica regola. A 16 anni, Jimmy vince per la prima volta contro Gloria, che invece di arrabbiarsi esulta: “È il giorno più bello della mia vita. Significa che stiamo facendo la cosa giusta”. E non importa se per seguire il sogno di un’altra persona e confonderlo con il proprio, il ragazzo sarebbe diventato paranoico, compulsivo, aggressivo, monomaniaco e alieno al mondo. Non importa se dopo giorni e anni le gambe fanno male e il campo diventa troppo piccolo e tutta quella intensità e quella dedizione logorano il corpo e i matrimoni mai celebrati (quello con Chris Evert); Gloria a suo figlio ripeteva sempre le stesse cose: “Ogni volta che colpisci la palla, prega che torni indietro perché tu possa colpirla di nuovo”. La vita poteva ridursi a questo per la donna, convinta che le sue necessità coincidessero con quelle dell’uomo ormai adulto che aveva generato.

 

 

Maria Sharapova (foto LaPresse)

 

È stato per amore, soltanto per amore, che padri padroni e madri matrigne hanno generato mostri, e poi fenomeni. Maria Sharapova lo ha sempre saputo. Suo padre Jurij si è letteralmente rotto la schiena per permetterle di diventare campionessa di Wimbledon a diciassette anni. Papà e figlia, fuggiti dalla Russia, hanno vissuto da esuli in America, uniti soltanto dal tennis, l’unica cosa che è stata loro concessa in dote. “È stata dura”, ha ammesso Sharapova nel suo libro “Inarrestabile”, “non ho mai dubitato nemmeno per un secondo che mio padre mi amasse”. Anche quando una notte di molti anni prima l’ha obbligata a salire su un aereo, volare dall’altra parte del mondo e non vedere più sua madre chissà per quanto tempo. Maria era spaesata, Jurij aveva altro a cui pensare: “Non importa se adesso non capisci, capirai”. “D’accordo papà”. Per Maria Sharapova e per tutti gli altri i successi sono figli dei signorsì, della rabbia trattenuta, del rispetto che si deve ai propri padri e non può essere altrimenti.

  

 

Andre Agassi (foto LaPresse) 

Non hanno mai conosciuto l’adolescenza perché non hanno mai avuto il privilegio di ribellarsi. Dietro a ogni fissazione, a ogni rimprovero da parte dei genitori si nasconde un sottile ma efficace ricatto: “Guarda che lo sto facendo per il tuo bene, non vedi che ho sacrificato la mia vita e le mie ambizioni per poter vivere alle tue spalle?”. Tutte le volte che Maria se lo sentiva ripetere abbassava lo sguardo e ricominciava a lavorare. L’altruismo genera sensi di colpa, i sensi di colpa hanno generato fuoriclasse. Andre Agassi per molto tempo non è riuscito a capire se odiava di più suo padre oppure il tennis: “Nonostante la tensione aleggiante, il terrore a volte, e tutte le sofferenze che mi ha provocato, la presenza di mio padre è stata l’unica costante della mia vita. C’è sempre stato, a gridarmi nelle orecchie”. Mike “Emanoul” Agassi è stato un orco, un tiranno, oggi ha quasi novant’anni e non se ne pente, se tornasse indietro rifarebbe la stesse scelte, provocando infelicità ed esaurimenti nervosi: il fine giustifica i mezzi. È difficile avere tra le mani un fenomeno e non sapere come plasmarlo: “Con i figli se spingi troppo sbagli, se spingi troppo poco anche”. Si procede per tentativi, sperando di non farsi troppo male a vicenda, di non ammazzare il talento, di non serbare rancore.

 

 

Martina Hingis (foto LaPresse)

 

Poi ci sono gli schiaffi e gli sputi, la frustrazione scaraventata contro il sangue del proprio sangue, Martina Hingis che è stata chiamata con quel nome per colpa o per amore di una madre, Melanie Molitorova, che la aveva concepita e allevata a immagine e somiglianza della Navratilova; le occhiatacce e gli insulti di Fabio Fognini rivolti al padre Fulvio e trasmessi in tutto il mondo: “Allora vieni tu a giocare al posto mio”. Il papà di Agnieszka Radwanska che invece di consolare sua figlia che aveva appena perso contro Sharapova le disse: “Prima di tutto, tu avresti bisogno di passare molte ore con uno psichiatra”.

 

Marion Bartoli soffriva ogni volta che vedeva i genitori, Walter e Sophie, entrare in campo. Non voleva deluderli, le si strozzava il cuore in gola al solo pensiero. Come faceva a dire a suo papà che gli voleva bene, ma che se anche lui gliene voleva allora doveva allontanarsi, farsi da parte, altrimenti lei non sarebbe riuscita a respirare? Un giorno, dopo aver visto sua figlia Jelena perdere una partita, Damir Dokic le si è avvicinato, si è tolto la cintura e l’ha presa a cinghiate su tutto il corpo; dopo averla fatta piangere e quasi svenire non era ancora soddisfatto, così le ha sputato in faccia. La ragazza ha odiato il tennis per molti anni, è sopravvissuta e ha raccontato ciò che è stata costretta a subire nell’autobiografia “Unbreakable”, indistruttibile. La sua testimonianza è simile a quella di molti tennisti cresciuti nel tentativo di assecondare le ambizioni e le aspettative dei genitori, madri e padri che hanno visto nei propri figli il riflesso di ciò che loro non sono mai stati in grado di diventare. Li hanno torturati, umiliati e offesi, hanno avuto ragione.

 

Da lunedì si accomoderanno tutti ai loro posti assegnati, felici e composti, ad applaudire le gesta eroiche della loro prole ubbidiente. I figli li cercheranno con lo sguardo, e a ogni partita vinta li ringrazieranno. Con un trofeo in mano tutti perdonano e nessuno dimentica. Serena Williams avrà addosso lo sguardo di mamma Oracene, che la segue in ogni parte del mondo da più di vent’anni. Poteva andarle peggio, ma fa tenerezza pensare che a trentasette anni, dopo essere diventata mamma, anche Serena Williams abbia bisogno di sentirsi ancora figlia, come quando aveva dodici anni e ha giocato il primo torneo della sua vita e senza gli occhi dei genitori si sarebbe sentita vuota, persa, libera di sbagliare e perdere, di essere una bambina. Oggi quando qualcuno le chiede di Alexis Olympia Ohanian jr lei risponde semplicemente: “L’unica cosa che auguro a mia figlia è che non diventi una giocatrice di tennis”.

 

[Questo articolo è stato pubblicato sul numero del Foglio Sportivo in edicola sabato 12 e domenica 13 gennaio 2019. Potete scaricarlo e leggerlo qui]

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