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Miracolo nelle città

Stefano Cingolani

Deserte durante il lockdown, sembravano destinate a essere abbandonate (tanto c’era  lo smart working). Ma la pandemia non le ha uccise, anzi. Ora che si riparte, la città si conferma perno essenziale per il lavoro, lo svago, l’apprendimento. Un’indagine tra il mondo e l’Italia, con appunti per i nuovi sindaci

È notte, la stazione di Milano è già diventata il tetto dei senzatetto quando all’improvviso strabocca dalle tenebre uggiose, “una folla, tanta ch’io non credevo che morte tanta n’avesse disfatta”. Il poeta T.S. Eliot aveva visto quella folla avviarsi sul London Bridge, depressa, gli occhi bassi, alienata; adesso, nelle spettrali ore tra il 7 e l’8 marzo 2020, sfida un destino arcaico, vuol sfuggire alla natura matrigna. Si sente il rotolio delle valigie sull’acciottolato, lo scalpiccio dei piedi, il cigolio dei tapis roulant che salgono verso i cancelli presi d’assalto mentre sale il suono delle voci come un mugghio di tempesta marina. Un’alluvione di corpi s’affretta sui binari e s’avventa sui treni diretti a sud. Intanto la tangenziale è già un fiume ininterrotto di veicoli. Un controesodo, una fuga dalla città. Gli anziani rievocano le immagini della guerra; i giovani che guerra non conoscono, ricordano le terrificanti parole di Cormac McCarthy (“notti oscure oltre ogni oscurità”), rivedono fotogrammi cinematografici, il film di John Carpenter “1997: Fuga da New York”, una data che allora sembrava futuristica, o sentono risuonare la canzone distopica di Lucio Dalla; i sacchi di sabbia sono già alle finestre, ma nell’anno che verrà non sarà tre volte Natale, chissà chi potrà mangiare il panettone in questo funereo calendario, chissà chi resterà a ricordare il giorno del grande abbandono. “Città irreale”, è davvero una terra desolata. La pandemia è arrivata, s’insinua prima silenziosa poi aggressiva, violenta, mentre la mano nera scende dai grattacieli fiammanti e stende il suo manto nei vicoli e nelle strade. Il lamento stridulo delle sirene, il rantolo secco della tosse, il brontolio sordo dei polmoni senza più ossigeno, il viaggio senza arrivederci. Via, via, via dal flagello, di corsa verso la vita. Non solo a Milano, non solo in Italia: la televisione rimanda le immagini delle autostrade intasate attorno a Parigi, la Périphérique bloccata. Via verso la campagna, a nord in Normandia come se il vento dell’Atlantico potesse spazzare anche il morbo, a sud nella Loira per rifugiarsi tra le colline, sperando che il virus scivoli con la corrente del fiume. Via dalla pazza folla, addio metropoli; il villaggio, il bosco, il focolare, l’umanità abbandona l’esistenza fatua e mefitica, lascia gli spazi angusti nei quali l’uomo si è fatto inscatolare, si rifugia nella rassicurante culla dell’inattuale. No, il borgo non è il passato, ma il nostro futuro – pontificano i soloni che poco prima rimiravano le torri di vetro e acciaio splendenti di luci. La pandemia è una ramazza terribile, insistono, ma spazzerà via le ultime illusioni del pensiero unico. È così? Quasi due anni dopo, mentre, incrociando le dita, il Covid-19 si spegne sotto l’attacco dei vaccini, più diffusi proprio nelle aree urbane, la città non è morta, non è muta, vuota e abbandonata, ma resta il luogo dove si consuma la ricerca di una nuova ragion d’essere per la vita in comune.

 

La città non è il problema, è la soluzione del problema.

È in corso da tempo un ripensamento del paradigma urbano, con un pullulare di ipotesi: la città giardino, la città circolare, la città dei servizi, la città impresa, la città dei quartieri che soppianta la città delle periferie, la città policentrica. Prima che il virus prendesse la scopa eravamo rimasti alla città globale con i suoi grattacieli, i suoi grandi aeroporti, le sue autostrade urbane. Secondo la sociologa olandese Saskia Sassen, autrice del saggio “The Global City”, nel 1991 le uniche metropoli in grado di poter vantare quel titolo un tempo ambito erano Londra, New York e Tokyo. Da allora altre città hanno raggiunto il rango di centri globali, per esempio Hong Kong e Shanghai, Dubai, il fulcro economico del Golfo Persico, e i poli di Mexico City e Sao Paulo in America Latina. Portano uomini e capitali, ma anche cultura, sono il laboratorio vivente di nuove frontiere abitative, attirano archistar come Rem Koolhaas, Richard Burdett, Norman Foster, Deyan Sudjic, Alejandro Aravena, Renzo Piano. Le città globali vivono in virtù dei loro legami di interdipendenza finanziaria e commerciale, in altre parole si autoalimentano, spesso senza alcuna ricaduta sulla regione circostante. Tokyo, Londra, Shanghai, sono connesse globalmente ma disconnesse localmente. Fanno eccezione Hong Kong, gelosa anche politicamente della sua identità, o città stato come Singapore. In Italia Milano negli ultimi vent’anni ha seguito questo modello riuscendo a mantenere un legame con il proprio territorio.  

La variante tecnologica è la smart city, altro mantra urbano pre pandemia. È la metropoli cablata dove si integrano le reti, dai trasporti alle telecomunicazioni, dove l’efficienza energetica e la protezione dell’ambiente vanno a braccetto: il modello nasce a Rio de Janeiro e la Ue aveva messo a disposizione 12 miliardi di euro per realizzare entro il 2020 una serie di città intelligenti. Sembrava di aver trovato il paradigma del futuro, ma la pandemia lo ha relegato al passato, sia pure un passato prossimo. Adesso la nuova frontiera è la città resiliente, la città flessibile, la città circolare perché vive dentro una circolarità economica ed ecologica che per l’Ocse, l’Organizzazione dei paesi più industrializzati, rappresenta la nuova frontiera. Definizioni su definizioni, esercizi di stile. Le Nazioni Unite hanno lanciato la campagna per “Rendere le città resilienti”, in altre parole in grado di affrontare eventi eccezionali (non solo la pandemia, ma anche i cambiamenti climatici) e di adattarsi. Per questo occorre una grande flessibilità anche nelle infrastrutture che rappresentano lo scheletro urbano. Insomma, un amalgama di idee, progetti, politiche urbane. Che cosa resta di tutto ciò?

 

 

New York, la prima città globale e ancora la più globale di tutte, non ha superato la pandemia, ma ancora una volta non dorme mai. Le sue mille luci si sono spente l’anno scorso, oltre 200 mila persone se ne sono andate. Due terzi dei trasferimenti hanno riguardato lo spostamento dal centro alla periferia o in zone rurali, a bassa densità e con il prezzo delle case, in vendita o in affitto, decisamente più abbordabili. Molti si sono trasferiti da Manhattan a Brooklyn. I veri ricchi sono fuggiti verso gli Hamptons, la casa al mare, o a nord verso Woodstock, la classe media si è diretta nel New Jersey o a Long Island, gli anziani sono volati in Florida, i giovani in California, chi ha continuato a fare business ha scelto il Texas. Una tendenza, per la verità di più lungo periodo, che precede il Covid-19. Ma tra la tarda primavera e l’estate è cominciato il rientro. Ancora a basso ritmo, il sindaco Bill de Blasio ha detto che ci vorrà un paio d’anni per tornare come prima, però i newyorchesi torneranno e la Grande Mela splenderà come e più di prima, la reazione all’11 settembre lo dimostra. Se resilienza è il nuovo mantra, ebbene New York City è la città più resiliente al mondo, giura il primo cittadino che il 2 novembre concluderà il suo secondo mandato e valuta se candidarsi come governatore dello stato, naturalmente per il Partito democratico. Durante il Columbus Day, che ricorre il 12 ottobre (martedì scorso), ha reso omaggio ancora una volta a Sant’Agata dei Goti, dove nacque il nonno Giovanni. Un ponte ideale non solo con l’Italia e gli italiani d’America, ma tra l’emblema stesso della metropoli moderna e la cittadina alle falde del monte Taburno, tra Benevento e Caserta, il passato e il futuro, il global e il local.

E torniamo così nello stivale che cerca di uscire dalla più grave crisi del dopoguerra. Il Sole 24 Ore ha rielaborato gli andamenti demografici mensili dell’Istat da gennaio a ottobre 2020, fotografando così l’impatto della prima ondata pandemica. La premessa è che nelle città metropolitane, dove vive il 16 per cento della popolazione italiana, i residenti sono in calo da ormai cinque anni fatta eccezione per Bologna e Milano, che dal 2015 a fine 2020 hanno visto crescere il numero di cittadini registrati all’anagrafe (rispettivamente del 2,3 e del 4,1 per cento). Nella media il calo non è stato drammatico (-2,4 per cento), ma continuo. Gli ultimi dodici mesi hanno aggiunto uno 0,7 per cento alla curva discendente. Anche in questo caso non si può parlare di crollo. Tuttavia proprio Milano ha chiuso il bilancio demografico in negativo: a pesare è soprattutto il +21 per cento di decessi (oltre 4 mila morti in più nel 2020), ma anche le tante cancellazioni per irreperibilità (oltre 6.300) e il forte calo delle nascite (più di mille nati in meno). Nelle città metropolitane le iscrizioni anagrafiche sono crollate in media del 23 per cento e le cancellazioni dell’8,7 per cento. In queste medie sono compresi i trasferimenti da altri comuni, dall’estero e le rettifiche anagrafiche.

L’esodo del 2020, dunque, va ridimensionato alla luce dei dati. Ma il ritorno di una ideologia anti-urbana non guarda alle cifre: troppo triviali, meglio l’utopia. È un sentimento che si snoda nei secoli e accompagna la nascita e lo sviluppo stesso delle società moderne. Per Torquato Tasso la città era “luogo d’ira”, i fisiocratici francesi François Quesnay e Anne-Robert-JacquesTurgot rifuggivano “il luogo del lusso e dei consumi” per esaltare il lavoro dei campi come unico produttore di ricchezza degli uomini e delle nazioni, i socialisti utopisti con i loro falansteri (Charles Fourier) o le città giardino tra fine Ottocento e primi Novecento, volevano risolvere in un modo o nell’altro l’alienazione e la separazione violenta tra uomo e natura. “L’uomo venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città”, scrisse invece Giambattista Vico che anche in questo amava remare controcorrente. La pandemia ha dato forza al rifiuto dell’urbanesimo, ciò ha impedito di capire e apprezzare l’evidenza dei fatti: le città sono state in prima linea nel far fronte alla crisi (lo dimostra la campagna vaccinale), hanno dovuto rispondere ai bisogni della popolazione, far rispettare le drammatiche chiusure imposte dal lockdown, promuovere la riapertura e il rilancio della vita economica e sociale. È questa la principale conclusione alla quale arriva una indagine della Fondazione Enrico Mattei fra 25 esperti provenienti da 20 città globali di ogni parte del mondo sugli effetti che il Covid-19 avrà sulla vita delle popolazioni. La ricerca è stata promossa da una serie di studiosi (Francesco Bandarin dell’Unesco, Enrico Ciciotti dell’Università Cattolica di Piacenza, Marco Cremaschi di Sciences Po a Parigi e Paolo Perulli dell’Università del Piemonte Orientale). Sono state sottoposte domande agli intervistati su 12 temi come l’accesso a beni e servizi, che vedrà la forte espansione dell’acquisizione a distanza di beni e servizi, dall’insegnamento agli acquisti online, la necessità di investimenti nella logistica e nella infrastruttura informatica, l’aumento della diseguaglianza legata al digital divide. Sono emerse importanti convergenze tra esperti che provengono da Nord e Sud America, dall’Europa, dall’Africa e dall’Asia. Catastrofisti e negazionisti hanno entrambi torto, non comprendono che è avvenuto un cambiamento profondo destinato ad avere effetti a lungo termine.

L’ufficio studi Gabetti e Patrigest ha elaborato un’analisi sul futuro del real estate italiano dopo l’emergenza Covid, analizzando settore per settore quelli che saranno gli impatti e i trend immobiliari futuri. Il primo trimestre 2021 ha segnato una decisiva ripresa delle compravendite, con una variazione del 38,6 per cento in più rispetto al medesimo periodo del 2020 e del 17 per cento rispetto al 2019. “La pandemia di Covid-19 sta avendo un impatto su tutte le asset class, seppur in modo differenziato tra i diversi settori”, dichiara Nadia Crisafulli, operations manager di Patrigest.  (segue a pagina tre) “Il residenziale si è dimostrato il più resiliente, la logistica quello emergente”, continua Nadia Crisafulli. “Gli alberghi e il commercio al dettaglio hanno subito le maggiori conseguenze, mentre il comparto degli uffici necessita di essere ripensato. Nella valutazione immobiliare dobbiamo tenere conto di tutti questi aspetti, in un contesto italiano che ha visto nel primo semestre 2021 una ripresa delle transazioni e un maggiore ottimismo, grazie alla campagna vaccinale in corso”.

Nomisma nel suo studio su “La casa e gli italiani” sottolinea che la pandemia non ha ridotto la voglia di comprare casa da parte degli italiani. Sono 3,3 milioni gli italiani intenzionati ad acquistare un immobile in questo 2021, un numero che corrisponde al 12,8 per cento, percentuale nettamente maggiore di quella che era stata stimata nel 2020 (9,5 per cento). Aumenta la ricerca della prima casa più grande e più verde. In Europa nel primo semestre del 2021 è stato venduto il 33,7 per cento di alloggi in più (il 34,8 in Italia) rispetto allo stesso periodo del 2020. I prezzi riprendono a salire anche se si stima che ci vorrà fino al 2023 per recuperare i livelli del 2019. Non si fermano gli acquisti degli immobili di lusso. Sulle 10 case più costose vendute nel 2020 negli Stati Uniti, secondo lo studio di valutazioni immobiliari Miller Samuel, cinque si trovano a Manhattan nel nuovo grattacielo di appartamenti di lusso progettato dagli architetti dello studio Robert A.M. Stern con indirizzo al 220 Central Park South. New York ha fatto da apripista, ma seguono a ruota Londra, Parigi, per non parlare delle metropoli asiatiche. Il mercato è un barometro fondamentale, ciò vuol dire che le città globali riprendono a vivere e nello stesso tempo ripensano se stesse. Già dall’estate a Milano e nelle principali città degli affari si è registrato un afflusso di acquisti per lo più da parte di gruppi immobiliari internazionali. Si compra perché i prezzi sono ancora bassi, ma si compra perché si punta sulla ripartenza e così facendo la si rafforza. A Santa Margherita Ligure nel settembre scorso è stato fatto il punto sul mercato immobiliare in forte ripresa soprattutto dal secondo trimestre, conferma Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari. Gli investitori puntano su uffici e residenze di tipo nuovo, si prevede che a fine anno i prezzi delle case nei cinque paesi più industrializzati registreranno un aumento medio del 6,3 per cento, mentre la stima per l’anno successivo è fissata al più 7,7 per cento. In testa è la Francia. Anche per l’Italia il 2021 si chiuderà in modo positivo, con una crescita degli scambi, rispetto al 2020, di undici punti percentuali. Si tornerà quindi a registrare un numero di transazioni uguale o di poco superiore alla soglia delle 600 mila compravendite che rappresenta il livello toccato dal mercato italiano prima dell’arrivo del coronavirus.

 

L’abitazione rimanda alla fabbrica e all’ufficio. Alla domanda da dove ripartire, la risposta è ripartire dal lavoro. È il lavoro che ha generato le metropoli, è il lavoro che le ha dilatate spesso a dismisura, è il lavoro che le trasformerà ancora nell’èra digitale. I luoghi si moltiplicano e si avvicinano. Non più solo un abitare multipolare (nel senso di moltiplicare i commerciali o i luoghi di ricreazione), ma il superamento di quella divisione tra lavoro e resto della propria vita segno distintivo della società industriale nei due secoli scorsi. Scenari Immobiliari conferma che sul mercato prevale la domanda per nuovi spazi da poter integrare con le differenti tipologie di lavoro ibrido. Regus, che fa parte della multinazionale britannica Iwg (Information Workers Group) in Italia, dove opera anche con i marchi Spaces e Signature, ha acquistato nel marzo scorso le 14 strutture dalla holding di Copernico, marchio molto noto a Milano (9 centri) ma presente anche a Bologna, Torino, Cagliari, Varese e Trieste. Salgono così a 84 le strutture gestite in Italia, uno dei mercati importanti nel Vecchio continente. “Il mercato è in grande crescita, sia nelle grosse città che in quelle più piccole – racconta Mauro Mordini, country manager per l’Italia – Il grande esperimento del lavoro da remoto vissuto con la pandemia ha fatto sì che molte aziende ripensassero globalmente la loro strategia immobiliare”.

Lo smart working o lavoro agile è qualcosa di più e in parte di diverso dal semplice telelavoro, richiede un ripensamento della intera organizzazione. Non si tratta di fare davanti a un computer da casa o comunque da remoto le stesse cose che si fanno in ufficio, ma di “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”, per citare la definizione che già nel 2015 ne dava l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. La distanza, il collegamento in remoto è una delle caratteristiche, ma non la sola e non è esclusiva, anzi si collega a nuovi luoghi di lavoro in presenza, insieme ad altri, all’interno di una struttura non più verticale che va dal capo che comanda all’esecutore, ma orizzontale, nella quale i compiti e le mansioni si possono scambiare. Nel mondo intero, più della metà dei dipendenti lavora da un luogo diverso da quello aziendale per almeno 2,5 giorni la settimana. E l’85 per cento degli imprenditori che ha optato per il lavoro flessibile testimonia che c’è stato un aumento di produttività. In Italia a una prima fase di innamoramento è seguita la disillusione, poi persino il rifiuto (si pensi alla scuola e alle polemiche sulla Dad, la didattica a distanza). In realtà è emersa l’impreparazione, l’incapacità, la non volontà di ripensare e riorganizzare le mansioni, che raggiunge il suo acme nella Pubblica amministrazione. “Negli ultimi 18 mesi abbiamo visto le imprese riconoscere non solo i benefici che il lavoro ibrido ha portato alla loro produttività, ma la crescente importanza per le comunità locali”, sottolinea Mark Dixon, fondatore e amministratore delegato della Iwg.

Gli uffici saranno deserti e i grattacieli dei centri direzionali diventeranno spettri architettonici? Non è così. Recentemente Google ha acquistato un’enorme struttura a Manhattan nella quale intende concentrare migliaia di dipendenti. Insomma, il lavoro agile e quello in presenza tenderanno a diventare complementari, a integrarsi, in un modello appunto ibrido e flessibile, inseguendo l’idea della “città a un quarto d’ora” come l’ha chiamata Carlos Moreno della Sorbona secondo il quale tutto quello di cui abbiamo bisogno deve essere raggiungibile in poco tempo. “Troppo a lungo quelli di noi che vivono nelle città hanno sopportato l’insopportabile. Accettiamo che il nostro senso del tempo sia deformato perché dobbiamo sprecarne così tanto solo per adattarci a una assurda organizzazione e alle lunghe distanze. La gente dovrebbe essere in grado di accedere, lavorare, abitare, mangiare, andare a scuola, essere curata, divertirsi facilmente e vicino casa”. Il rischio è di creare dei ghetti più o meno gentrificati, anche senza muri né steccati. Quel che impedisce ogni effetto claustrofobico è proprio la ricomposizione della frattura tra vita e lavoro che ha segnato gli ultimi due secoli. Solo così il quartiere non diventa un dormitorio, sia pure di lusso o quanto meno confortevole, e la fabbrica o l’ufficio non sono più una prigione. Nelle città come quelle italiane ricche di centri storici lo scambio diventa relativamente facile, soprattutto se questi centri vengono liberati o comunque alleggeriti (si pensi a Roma dove la maggior parte dei ministeri sono raggruppati in un limitato triangolo di strade, distanti poche centinaia di metri). Ben più complesso è evitare la separazione urbana.

Tutto, dal lavoro ai servizi, richiede un profondo ripensamento. Prendiamo i trasporti. Si ridurrà la mobilità obbligata, ma aumenterà la mobilità individuale nelle forme più diverse, dalle biciclette ai monopattini passando per le moto. Una circolazione che diventa anch’essa più facile, sostenibile, meno invasiva, se si svolge all’interno di una città policentrica. Il collasso dei sistemi sanitari nella prima fase della pandemia ha riproposto il tema del decentramento, dei presidi medici locali, della vicinanza con gli assistiti. Ciò riguarda in primo luogo le grandi aree metropolitane dove spostarsi è più difficile. Si tratta di ricostruire presidi decentrati legati alla prevenzione, e riportare nei diversi paesi la produzione del materiale medico indispensabile che era stato concentrato solo in alcuni punti.
 Il valore delle case è destinato a cambiare, ma una città dai molti luoghi e dai mille volti favorisce anche la riqualificazione urbana, così urgente in aree metropolitane spesso informi e melmose. Non una crisi dell’urbanesimo, dunque, al contrario di quel che molti sostengono, ma un diverso modello che richiede di ristrutturare le città per quartieri, di portare urbanità in aree suburbane o interne, di affrontare i problemi della riqualificazione negli insediamenti. Ciò è ancor più urgente nei paesi più poveri.

Un diverso paradigma che abbraccia il lavoro, la vita sociale, l’abitare, richiede un approccio adeguato alla governance municipale. Secondo Gianfranco Dioguardi occorre “una scienza nuova che sappia affrontare la complessità del governo delle città, una scienza da insegnare in apposite city school” e ha cominciato a sperimentare questo approccio a Milano. L’attuale assetto istituzionale non regge più, in Italia è una priorità della quale non c’è sufficiente consapevolezza. Le elezioni nelle principali città non sono state un’occasione per discutere modelli e strategie. La buona amministrazione è ovunque un requisito, ancor più dove si è amministrato male, ma proprio la crisi delle città, o meglio la grande transizione urbana, richiede scelte più ambiziose. Molte cose si stanno muovendo, in Italia più o meno spontaneamente, ma anche grazie al confronto competitivo con le città europee. A Parigi come a Roma si litiga sui monopattini, sulle piste ciclabili, sulle aree pedonali, su tutto ciò che ha a che fare con il grande tema della mobilità urbana. “Milano sempre più Milano” è lo slogan vincente di Beppe Sala, all’insegna della continuità, con un ponte tra l’Expo e le Olimpiadi invernali, aggiungendo sostenibilità e resilienza, le parole d’ordine à la page.

  

Troppo poco? Forse, ma in fondo riprendere il filo rosso che il voto non ha interrotto ha un senso per Milano, lo ha meno per Torino dove l’amministrazione Appendino non ha combinato nulla, è del tutto improponibile per Roma dove tutti i fili si sono spezzati e da tempo. I periodi migliori in termini di qualità amministrativa e di crescita complessiva della città, secondo Alfredo Macchiati, docente di economia politica alla Luiss, risalgono indietro nel tempo, alle sindacature Nathan ai primi del Novecento (1907-1913), Argan-Petroselli negli anni 70 e Rutelli a cavallo del Duemila. Lo ha scritto in un libro intitolato “Miracolo a Roma”, goWare edizioni, ricco nell’analisi sul passato e nelle idee per il futuro. La capitale non è mai riuscita a essere Capitale come Parigi o come Madrid per ragioni storiche, in gran parte note, e geografiche. Giacomo Leopardi che non l’amava scrisse che aveva “tanti spazi gittati tra gli uomini invece d’essere spazi che contengano gli uomini”, spazi dove tutto si disperde e si fa poltiglia, mucillagine, palude, oggi come un tempo. Eppure, questo il paradosso messo in luce da Macchiati, le sue debolezze possono trasformarsi in occasioni proprio in relazione al gran dibattito aperto sul futuro delle città e delle aree metropolitane. In che senso?

Quel che disturbava profondamente Leopardi e rappresentava un’anomalia rispetto all’idea di città dei suoi tempi potrebbe essere considerata una sorta di anticipazione di un modello che tende ad affermarsi ovunque. “La struttura urbana di Roma può essere un’opportunità, non va demonizzata – scrive Macchiati –. Le città contemporanee non sono più esclusivamente identificabili con insediamenti densi ma sono policentriche e caratterizzate dallo sviluppo di ampie commuting zones a bassa densità”. Mettere in comunicazione centro e periferia è diventato un vuoto luogo comune, in realtà si tratta di superare la dicotomia stessa. E’ possibile se si ragiona e si opera solo in un contesto fino in fondo metropolitano. Il comune da questo punto di vista, non ha più molto senso. Non solo un riequilibrio sociale, economico, urbanistico, dunque, ma anche una profonda revisione dell’assetto istituzionale. Affinché Roma diventi un miracolo, secondo Macchiati, oggi ci sono condizioni nuove, tutte sottoposte ad alcune condizioni, a molti se e ma. “Le risorse pubbliche potrebbero tornare a fluire relativamente copiose con il Piano nazionale di ripresa e resilienza e anche con il Giubileo del 2025, ma sarebbero necessarie una nuova progettualità in materia urbanistica e una rinvigorita capacità amministrativa perché possano effettivamente essere assegnate alla capitale. Il Recovery, con le grandi imprese ‘semipubbliche’ che svolgeranno un ruolo fondamentale nella sua implementazione (Enel, Eni, Ferrovie, Terna, Leonardo, Snam, Tim, Open Fiber, Cassa depositi e prestiti, per citare i gruppi più importanti che hanno nella capitale il loro quartier generale, ndr), potrebbe riportare su Roma l’asse del potere economico con l’indotto di servizi professionali e finanza; ma per svolgere questo ruolo la capitale dovrà avere infrastrutture digitali e di mobilità adeguate. Potrebbe riprendere anche il turismo ma, considerato come si è sviluppata l’offerta turistica negli ultimi vent’anni, non intervenire per riqualificarla condannerebbe Roma a rimanere sui servizi a basso valore aggiunto”.

L’urbe non è solo un parco giochi per turisti, né un museo che celebra antiche gloria, relegata in questo ambito diventa una città morta, sostanzialmente periferica, è vero che non ha un ruolo centrale nel capitalismo globale, tuttavia con un diverso ruolo delle utilities, nuove istituzioni economiche, una significativa presenza privata insieme a una mano pubblica che oggi prevale anche negli investimenti e non solo nella distribuzione assistenziale (a proposito, Roma spende pro capite molto più di Milano) la città eterna potrà sfuggire alla grottesca nostalgia sulle anticaglie o alle corse delle bighe al Circo Massimo. Di questa dimensione più ampia e meno provinciale non s’è parlato in campagna elettorale. Certo, la monnezza va tolta dalle strade e i cinghiali riportati nelle riserve, ma la cura anche ai mali quotidiani sta in un diverso assetto urbano.

Roma è un esempio, anche se il più eclatante e doloroso per chi vive in Italia, ma il suo futuro, fatte le dovute differenze, non è così diverso da quello di Milano, perché s’inserisce in un comune percorso verso una ridefinizione urbana, una nuova relazione tra uomini e spazi, una nuova relazione tra vita e lavoro. Vasto programma, la città nuova è ancora invisibile, ma diradando la nebbia calviniana si può vedere che sta prendendo forma. Se le metropoli contemporanee non sono più esclusivamente identificabili con insediamenti densi ma sono policentriche e caratterizzate dallo sviluppo di ampie zone di spostamenti a bassa densità, persino la struttura urbana di Roma può essere un’opportunità. Al nuovo sindaco l’ardua risposta.

Come definire, insomma, la città post pandemia? Intanto guardiamo ai fatti. Non c’è stato nessun vero esodo, nemmeno in Italia: chi ha lasciato i centri urbani, chi si è rifugiato in campagna, nei borghi, nella seconda casa, o nel nido avito, o è ritornato oppure fa la spola, molti dividono la loro settimana soprattutto se sono passati allo smart working, in ogni caso la loro vita fa perno sulla città, per il lavoro, per lo svago, per l’apprendimento e trovano una città che essi stessi, anche con la loro reazione alla pandemia, stanno contribuendo a cambiare. E’ un processo in corso e in continua evoluzione, è difficile ibernarlo in un modello, in una definizione chiara e distinta. Forse rende l’idea parlare di “città ricomposta” o “città spaziale” (in senso post leopardiano) che tende a superare le divisioni provocate dalla urbanizzazione industriale confermate, persino aggravate, dall’amebica metropoli post-industriale. “Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”, spiega Marco Polo al Gran Kan. E aggiunge: “Le città si dividono tra quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati” (Italo Calvino, “Le città invisibili”).
 

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