AP Photo/Frank Franklin II

Interviste da Manhattan

"Il respiro di New York, vent'anni dopo". Viaggio nella città ridisegnata dall'11 settembre

Francesco Gottardi

Da Ground zero a quartiere vero, nonostante la pandemia: "Il World trade center non era mai stato così integrato al territorio e alla sua gente". Parlano due urbanisti dell'Università di Ny

È nel rispetto del vuoto, che ha ricominciato a riempirsi. L’acqua delle Reflecting pools, le due enormi fontane senza fondo costruite dove fino a vent’anni fa si innalzavano per 500 metri le Twin towers, continua a scorrere a cascata, rimbombando. Forse non laverà mai via abbastanza il passato: “Oggi il World Trade Center è integrato alla città più di quanto non lo sia mai stato. Ma noi di New York tendiamo a evitare la parte dedicata al memorial. Fa un effetto strano. Io ci sono stato solo una volta”.

 

Eric Goldwyn è cresciuto proprio a Lower Manhattan, “quell’11 settembre ero al college, fuori città. Ma quando vi tornai e da 6th Avenue non trovavo più le Torri, guardando verso sud solo terribile cielo, allora capii. Avevamo perso la nostra bussola”. Oggi Goldwyn è program director al Marron institute of Urban management, New York University, e racconta al Foglio come New York abbia saputo riprendersi dopo la ferita più profonda. “Prima di quel giorno la città era in una fase molto vibrante: diverse attività economiche si stavano spostando verso Midtown”, tra l’Empire state building e Central park, “viceversa a Downtown iniziava a rafforzarsi la residenzialità”. E poi? “All’inizio posti vacanti, incertezza diffusa, il trauma fisico di 14th Street”, al di sotto della quale interi quartieri sono rimasti paralizzati per settimane. “Ma allo shock è seguita una risposta decisa: da 8 a 8,8 milioni di abitanti, da 3,5 a 4,5 milioni di lavoratori. New York in questi vent’anni è cresciuta”.

Basta alzare un braccio per strada, salire su un taxi giallo – che sarà apparso in un istante – e alzare gli occhi nel tragitto verso Battery Park, la punta sud della Grande mela: “L’11/9 ha imposto un ripensamento del water front”, la schiera di grattacieli lungo Hudson e East river, “creando grandi opportunità di sviluppo urbano attorno a Ground zero. Basti pensare a TriBeCa, il quartiere che si estende dal Wtc a Canal street: in passato era un insieme di ex magazzini e subito dopo gli attentati nessuno ci voleva venire a vivere. Oggi, nonostante la frenata dovuta alla pandemia, è tra le zone più esclusive di Manhattan. Ed è stata la desolazione iniziale a consentire forme più sperimentali di architettura, con il favore della burocrazia”. Più a est, ai piedi del ponte di Brooklyn, l’estate riporta il brusio dei locali all’aperto. “È South Street Seaport”, continua Goldwyn, “uno storico distretto mercantile riconvertito in schiere di ristoranti e night club sul molo: lo specchio dei grandi investimenti e fondi pubblici garantiti a New York dopo gli attentati. Per non parlare della sensibilità collettiva: 50 milioni di turisti all’anno, almeno un americano su due che dal 2001 ha visitato Ground zero. Molto più dei numeri di una volta. Downtown ha riscoperto la voglia di vivere e la gente viene qui anche solo per rilassarsi”.

 

L'interno dell'Oculus, o Wtc transportation hub, progettato dall'architetto spagnolo Santiago Calatrava (foto: Arthur Brognoli)

Oltre la frenesia del Financial district. È da lì che aveva iniziato Alain Bertaud, oggi urbanista francese di esperienza globale e membro onorario di Mit, World bank e Nyu: “A quel tempo c’erano molte mense per lavoratori, viavai nei giorni feriali. Ma nel weekend attorno ai due giganti d’acciaio era un mortorio. E così è rimasto fino a quando sono crollati”. Spartiacque vero: “New York è una realtà dinamica, frammentata, una pluralità di anime difficili da mettere d’accordo”, spiega il professore. “L’11/9 ha segnato un nuovo inizio: quello del consenso, della città unita nella tragedia. Il sindaco Bloomberg ha fatto la sua parte, qualcuno voleva ricostruire secondo il com’era, dov’era, ma alla fine ha prevalso la linea della riconversione degli spazi. E nessuno ha remato contro. New York è sempre più polifunzionale”. Brooklyn e Queens trainano l’espansione, “il Financial district segue: da 50mila abitanti nel 2001, oggi ne conta 65-70mila. Più giovani, per giunta: la pandemia sta spingendo le persone nelle periferie, ma il fascino di Manhattan rimane irresistibile. Presto richiamerà le start-up. E il nuovo sindaco”, che sarà eletto a novembre, “dovrà gestire questa ripresa senza sottovalutare le problematiche sociali esistenti. La storia e le tecnologie definiscono le città: urban planning vuol dire sapersi adattare. Fin qui New York ci è riuscita”.

Una parte del merito ce l’ha anche il nuovo World trade center: lontano dall’effetto coppia e dalla dimensione cult delle Twin towers, icone del sogno americano prima degli attacchi. Eppure, “vent’anni fa il complesso non offriva tutte queste possibilità”, convengono Goldwyn e Bertaud. “Era un superblocco chiuso, una piazza senza alberi e le strade vi sbattevano a vicolo cieco. Ora invece ha ripreso a comunicare con il tessuto urbano circostante: è una zona verde, pedonale, il fulcro di un grande hub di transito”, l’Oculus progettato da Calatrava, “con un shopping center dal sapore internazionale”. E letteralmente, il termometro della rinascita: “Magari la rete dei trasporti si poteva progettare con più attenzione. C’è ancora disequilibrio fra mercato delle case, lavoro e popolazione residente, con forte pressione sugli immobili. Ma era difficile fare di più, via via che cresceva la Freedom tower”, oggi 1776 piedi antenna compresa. “Per anni era sembrata uno scheletro. Non appena ha iniziato a spuntare alta e elegante fra i grattacieli, quasi l’ho salutata: There you are, my old friend”. Tornò anche un sorriso, per le strade del Village.

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