Tsunami, HGokusai 19mo secolo (foto via Wikimedia)

Quelli che… stiamo combattendo il populismo nel modo sbagliato. Un libro

Cristina Marconi

È meglio far pace con questo vecchio fenomeno e con i suoi nuovi, travolgenti successi e stare ad ascoltare le istanze di cui si fa portatore. La diagnosi e l’invito a tavola

Londra. Il “populismo nazionale” o comunque lo si voglia chiamare è qui per restare. Non solo “rappresenta una tradizione ben definita in occidente”, ma non sarà certo il passaggio di consegne alla generazione dei sensibili millennial, tolleranti ma anche poco propensi a tornare ai vecchi partiti o a staccarsi dal computer per recarsi alle urne, a fermare l’avanzata della “banda dei miserabili” evocata da Hillary Clinton. E quindi è meglio far pace con questo vecchio fenomeno e con i suoi nuovi, travolgenti successi e stare ad ascoltare le istanze di cui si fa portatore, ossia il desiderio dell’opinione pubblica di dare un taglio all’immigrazione e di fermare l’iper-cambiamento etnico in corso in molti paesi occidentali.

  

Nel dibattito attuale sul populismo esiste da tempo un filone “se non puoi sconfiggerli unisciti a loro”, e chissà che coi tempi che corrono non si trovi un po’ di spazio in un Pantheon intellettuale neo-pop sempre a corto di nuove leve. A anni di distanza dai pungenti libri di David Goodhart, che con la loro veemenza pamphlettistica due verità le dicevano, in “Populismo nazionale. La rivolta contro la democrazia liberale” gli scienziati politici Roger Eatwell e Matthew Goodwin fanno una disamina accademica sorprendentemente cedevole dello stesso fenomeno, senza offrire soluzioni che non siano quella di diventare tutti un po’ populisti. “C’è sicuramente un lato oscuro nel populismo nazionale”, riconoscono a malapena gli autori parlando con il Foglio e citando la storica propensione a celebrare una società omogenea di piccoli uomini, la corruzione, il disprezzo per gli intellettuali e una certa simpatia per le teorie del complotto, oltre alla capacità di polarizzare la politica e di mettere in difficoltà le istituzioni. “Ma concentrarsi in maniera indebita su questo aspetto distoglie l’attenzione dal modo in cui i populisti sollevano a volte questioni scomode ma legittime che sennò resterebbero senza risposta”, come la capacità dell’islam di integrarsi in occidente, osservano, prima di elencare gli elementi che hanno fatto spazio a questo vigoroso revival, presente negli Stati Uniti già a fine 800. “La democrazia liberale ha sempre cercato di limitare la partecipazione delle masse”, spiegano i due, citando l’immigrazione e il cosiddetto “iper-cambiamento etnico”, che misteriosamente funziona anche in paesi “intatti” come la Polonia e l’Ungheria, come base del “disallineamento” tra i partiti e la gente. Inoltre Donald Trump e Matteo Salvini non piacciono solo alle classi popolari, ma a chi soffre di “privazioni relative”, coloro che non stanno male in assoluto ma stanno peggio di qualcun altro: tutti, potenzialmente.

 

Eatwell e Goodwin cercano di convincere il lettore che non c’è da sperare che il tempo sia galantuomo, quando si tratta di sconfiggere il populismo. Un recente report sulla iGen dei nati tra il 1995 e il 2012 mostra che il 30 per cento dei liceali americani si considera conservatore, più che ai tempi di Reagan. Del restante 70 per cento occorre ricordare che più che andare alle urne ama firmare petizioni online, e che, non essendo legato ad alcuna ideologia, è una preda facile per le nuove offerte politiche. L’altra speranza che anima i liberali è che i populisti falliscano sull’economia. Non solo potrebbe non succedere, ma tenendo conto del fatto che propongono di solito misure di sinistra ma senza portata universale, i liberali devono ingegnarsi davvero tanto per proporre delle alternative.

 

Evitiamo di sbagliare la diagnosi, dicono gli autori, e basta dire che le masse sono state manipolate: la gente sa quello che vota, sa di volere un muro con il Messico o immigrazione più bassa. A domanda, Goodwin dice che i grillini non possono essere iscritti nel populismo nazionale né esserne considerati araldi. La Lega sì, quello per Salvini è un voto di protesta, vogliono più democrazia e più possibilità di dire la loro. Nel 2042 gli americani bianchi saranno in minoranza e questo ha avvantaggiato Trump, per dire. E quindi che si fa, invece di romanizzare i barbari li si invita a cena e si fa tutti come loro? Chi ha cercato di seguire l’argomento populista, come Boris Johnson, si è dovuto rintanare in casa col pretesto di un libro da consegnare. Meglio per lui, speriamo finisca in tempo. Perché le scadenze sono importanti, e fare uscire a fine 2018 una tesi vecchia di almeno due anni come “National Populism” senza una proposta per riagganciare il bandolo della matassa del progresso rischia di essere inutile, oltre che intellettualmente pigro.