No all'alternativa populista
Non basta rimettere in sesto un partito. Serve un progetto più grande e non più elitista. Il libro di Gentiloni
[Pubblichiamo un estratto dal libro dell’ex presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, “La sfida impopulista. Da dove ripartire per tornare a vincere” (Rizzoli, 272 pp., 19,50 euro) dal 13 novembre in libreria].
La fatica della democrazia rappresentativa alimenta la domanda di una “democrazia immediata”, di cui la rete offre un succedaneo a buon mercato, che i nuovi populisti sfruttano per alimentare una situazione del tutto nuova. Ilvo Diamanti e Marc Lazar nel loro ultimo libro l’hanno definita “popolocrazia”.
Le ragioni della nostra sconfitta sono dunque profonde anche perché inserite in questo panorama globale.
La prima cosa da evitare è inseguire il sovranismo populista sul suo stesso terreno. Per essere credibile, l’alternativa dev’essere profondamente diversa. Non può accodarsi al rifiuto della globalizzazione e alla sua radice antimoderna. Anche perché proporsi di fermare la globalizzazione, per dirla con Ulrich Beck, è come pensare che “l’odio per l’inverno possa frenare in autunno la caduta delle foglie”. Non può partecipare al gran ballo dei dilettanti, deve piuttosto coltivare serietà e competenza.
Anche il nostro linguaggio non può adeguarsi alla deriva populista, per quanto possa apparire in certi momenti dominante. Linguaggi e comportamenti devono riflettere la nostra idea di politica, non la loro. E’ il framing di cui scriveva quattordici anni fa George Lakoff ai Democratici americani nel suo “Non pensare all’elefante!”: “Se il discorso diventa civile, avrete già riportato una vittoria” ammonisce il linguista di Berkeley. “Se riescono a farvi urlare hanno vinto loro”. Ha ragione tuttora. Aggiunge David Runciman, in How Democracy Ends: “L’elezione di Donald Trump è sintomo di un clima politico surriscaldato e sempre più instabile, basato su sfiducia e intolleranza reciproche, alimentato da accuse selvagge e bullismo online. Un dialogo tra sordi che, urlando, si affogano a vicenda”. Insomma, le guerre di fazione contribuiscono a minare le istituzioni, non a rafforzarne la qualità. E mentre sugli spalti gli ultrà se le danno di santa ragione, gli elettori faticano a distinguere torti e ragioni.
Da presidente del Consiglio ho cercato in tutti i modi di essere rassicurante e di non alimentare polemiche e aspettative eccessive. C’è chi ha considerato questa linea di condotta troppo fredda. Io invece ne sono convinto e orgoglioso. D’altra parte, sono in ottima compagnia. E’ stata la cifra di Romano Prodi. E’ quella della più influente leader europea di questi anni, Angela Merkel. E nonostante Trump, Barack Obama nel suo recente discorso in Illinois ha detto: “Spesso discuto con amici progressisti… che credono che dobbiamo rispondere al fuoco con il fuoco, imitare le loro tattiche, dire qualsiasi cosa funzioni, denigrare la parte avversa. Non sono d’accordo. Non perché io sia morbido. Non sono d’accordo perché erodendo le nostre istituzioni, alimentando la rabbia della gente, urlando gli uni contro gli altri… facciamo il gioco di quelli che non credono alla forza dell’azione politica collettiva”.
“Se il discorso diventa civile, avrete già riportato una vittoria”, dice George Lakoff. “Se riescono a farvi urlare hanno vinto loro”
Non inseguire il nazionalismo populista vuol dire andare oltre le ricette tipiche della sinistra europea nella seconda Belle Époque, quella della fine del secolo scorso. Come nel primo decennio del Novecento, anche nell’ultimo il mondo è stato infatti attraversato da un’onda travolgente di ottimismo. I numeri hanno spesso un sorprendente significato simbolico. Dal 9/11 all’11/9, dal crollo del Muro di Berlino al crollo delle Torri Gemelle, tanto è durata la “fine della storia”. Un intervallo. Le ricette scaturite in quel decennio, a dire il vero, sono state recepite in ritardo e a fatica da parte della sinistra italiana. La lunga scia del più forte Partito comunista d’Occidente si è fatta sentire al punto che oggi una rinuncia al socialismo liberale, in Italia, potrebbe apparire un infanticidio, tanto stentata e tardiva è stata la sua adozione nella cultura della sinistra di governo. Fiorite negli anni Novanta, le nuove idee della sinistra sono riuscite faticosamente a rompere le catene dell’armamentario ormai atrofizzato della sinistra degli anni Sessanta e Settanta. E a recuperare un serio ritardo rispetto alla destra che, soprattutto nella versione anglosassone (Thatcher e Reagan), ma in fondo anche in quella sociale (i democratici cristiani dell’Europa continentale), era riuscita a fare surf sulle onde della globalizzazione molto meglio della sinistra.
E’ evidente tuttavia che quelle ricette sono ormai datate. Non basta più sostenere, come ha fatto Tony Blair a Chatham House nello scorso giugno, che “dobbiamo spiegare di nuovo le cose che davamo per scontate: perché il protezionismo è negativo, perché gestire bene l’immigrazione è positivo, perché la rivoluzione tecnologica ci può portare dei vantaggi enormi e il suo impatto spiazzante può essere superato, perché la Nato non è mai stata così importante, perché la globalizzazione è guidata dalle persone, non dai governi, e resisterle è pericoloso”. Tutto giusto, sacrosanto. Ma anche inutile.
Certo che non bisogna tornare agli schemi della sinistra di mezzo secolo fa, riscoprendo la lotta di classe nella lotta al “neoliberismo” e riducendo il socialismo all’articolo 18. Ma l’alternativa alle storture della globalizzazione, per essere una cosa seria, richiede cambi di rotta radicali. Nel “manifesto” pubblicato in occasione dei suoi 175 anni, l’Economist lancia tra l’altro l’allarme su quanto sta succedendo all’ombra di uno dei valori simbolo di decenni di pensiero liberale, la meritocrazia. “La classe dirigente vive in una bolla. Frequentano le stesse università, si sposano tra loro, vivono negli stessi quartieri e lavorano negli stessi uffici”. Conclusione: “Oggi i liberali devono schierarsi con il precariato in lotta contro i patrizi”. Così parlò il più influente giornale dell’establishment globale.
“Per vedere quello che abbiamo davanti al naso serve uno sforzo costante” scriveva George Orwell. Se sei progressista, hai fiducia nella possibilità di un mondo migliore. E allora guai a dimenticare le nostre radici, anche le più antiche. Guai a ripiegare nelle nicchie dei diritti di minoranze. Ai progressisti, nel tempo della globalizzazione, vengono rivolte domande essenziali: devi garantire sicurezza a chi si sente minacciato, tutela del lavoro, riduzione dell’ingiustizia sociale, sostenibilità ambientale. E non devi farlo nel giardino delle élite, ma in mezzo alla gente.
Di questo discutono nell’èra Trump anche i Democratici americani. Tra le riflessioni più stimolanti, cito quella di Richard Kahlenberg che prende spunto dal cinquantenario della campagna presidenziale di Robert Kennedy per mettere al centro della prospettiva democratica il tema della diseguaglianza: “I tre americani più ricchi possiedono più di quanto possieda la metà più svantaggiata degli americani… Oggi ci sono le condizioni per i progressisti per rivolgersi ai lavoratori bianchi, che giustamente Trump aveva definito ‘americani dimenticati’ che poi lo stesso Trump ha presto dimenticato”. L’invito è a tornare a rivolgersi ai lavoratori bianchi non laureati, che nel 2016 sono stati il 45 per cento del totale degli elettori. Senza abbandonare l’impegno per i diritti delle minoranze e contro la discriminazione razziale, Kahlenberg suggerisce di adottare per le discriminazioni sociali rimedi e forme di lotta adottate per i diritti civili, a partire dall’affirmative action introdotta alla fine degli anni Sessanta per facilitare l’istruzione superiore di ispanici e neri. Il “populista inclusivo” è a favore dell’accoglienza dei migranti, ma senza mai dimenticare i cittadini americani, “onora il patriottismo e la comune identità americana”, anche perché – come a sua volta osserva Yascha Mounk – “convinta di non poter orientare il patriottismo, la sinistra ha lasciato spazio al nazionalismo”. E soprattutto, oltre che delle diseguaglianze sociali, si prende cura delle diseguaglianze “relazionali”, il che vuol dire rispettare le persone e non guardarle dall’alto in basso. Secondo Fareed Zakaria, mentre il peccato più grave della destra è il razzismo, quello della sinistra è l’elitismo.
La sicurezza è considerata un problema ovunque, tra i ceti popolari. Deve essere un nostro assillo quotidiano
Guardiamo in faccia la realtà. La sicurezza è considerata un problema ovunque, tra i ceti popolari. Deve essere un nostro assillo quotidiano. L’idea di nazione va coltivata: serve amor di patria per sfuggire ai sovranismi. Proprio perché siamo per l’apertura al mondo e contro il protezionismo, tuteliamo il lavoro italiano: con la competitività, non con l’autarchia. Abbiamo fiducia nella rivoluzione digitale, ma non siamo ciechi di fronte alle sue incognite per il lavoro e alle nuove forme di sfruttamento. Il livello di concentrazione delle ricchezze raggiunto nel nuovo secolo è semplicemente insopportabile.
L’onda nazionalpopulista può essere fermata; in Italia le divisioni nell’area di governo, che nella fase di avvio sono state addirittura un suo punto di forza, metteranno a dura prova la sua coesione di fronte alle scelte che il Paese ha di fronte. Ma un conto è pronosticare la fine della luna di miele dei vincitori del 4 marzo, altro è tornare a vincere. Per tornare a vincere serve anzitutto una ripresa del Pd, che mi auguro possa venire dal suo Congresso. Il più presto possibile, con energie nuove. E non basta rimettere in sesto il partito. Serve proporre un’alternativa. Un’alleanza per l’alternativa.
Questa alleanza può essere espressione di forze sociali diverse. Il “blocco democratico”, la nuova maggioranza, è ovviamente interclassista. Fondato su valori oltre che su interessi. Attraversa l’intero Paese da Sud a Nord. Scommette sulle componenti più attive della società italiana. Pratica l’arte del compromesso, perché ha ragione il grande Amos Oz, “la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo”.
L'editoriale del direttore