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I libri dei politici riusciranno a portare i cittadini alle urne o a spostare voti?

Mariarosa Mancuso

Il metodo McLuhan (leggere pagina 69 per capire se vale la pena comprare un volume) applicato alle ultime fatiche letterarie degli esponenti non in linea con il governo gialloverde

Con i romanzi funziona piuttosto bene, negli anni abbiamo collaudato il carotaggio sia con i candidati al Premio Strega sia con gli aspiranti tali. Dobbiamo il suggerimento alla buonanima di Marshall McLuhan – uno da cui vorremmo sentir raccontare internet e i social tutti. Dice il teorico del villaggio globale, rivolgendosi al lettore indeciso in libreria: prendi il libro che ti ha incuriosito, aprilo (anche strappando l’orrendo cellophane), leggi a pagina 69. Serve per sapere se il colpo di fulmine – può averlo suscitato il titolo, il nome dell’autore, una bella copertina – si tramuterà in una più stabile relazione.

 

Pensatelo come un assaggio. Se sarà ghiottoneria o minestra riscaldata o tagliatella al ragù della mamma, lo decide chi legge. Senza dar retta ai risvolti di copertina: come ognuno ormai sa sono dettati o suggeriti dall’autore medesimo in combutta con il marketing (risultato: pompose frasi da menu, per portate composte – scriveva Camillo Langone qualche giorno fa – da “sette schizzetti di ingredienti e colori diversi, tra il dripping di Jackson Pollock e la decostruzione di Jacques Derrida”).

Pagina 69 è lontana da pagina 1. Abbastanza per sorprendere lo scrittore in un momento di stanca, quando comincia a distrarsi o a lasciar correre. Fino a pagina 10, diamo per scontato che rileggerà fino allo spasimo per far bella figura (lo diamo per scontato perché siamo fiduciosi nell’umanità, ma non avete idea di quanti attacchi zoppicanti tocca leggere). Marshall McLuhan la pensava come un microcosmo che riflette fedelmente i microcosmo.

 

Abbiamo applicato il carotaggio ai libri dei politici, in un’area ampia che non si riconosce nell’attuale governo (in un paese meno complicato dell’Italia si direbbe “opposizione”). Per capire come mai sono così numerosi sugli scaffali, mentre vige il disinteresse per la politica. E se riusciranno a trascinare i cittadini alle urne, o a spostare voti.

  

Carlo Calenda, “Orizzonti selvaggi”, Feltrinelli

Il titolo si fa notare, con la sua aria da western, e il sottotitolo: “Capire la paura e ritrovare il coraggio” (i programmi politici o sono vasti o non sono, ci sarà tempo per dire “ci hanno remato contro”). Pagina 69 attacca sul “ressentiment”. La parola sta a cavallo con pagina 68 – abbiamo sbirciato – e lì viene garbatamente tradotta con “invidia esistenziale”. Buttarsi sul “risentimento” avrebbe portato in zona Nietzsche, alla “Genealogia della morale” e non tutti hanno voglia di andarci (la nota rimanda a “L’età della rabbia” di Pankaj Mishra).

  

  

Il capitolo si intitola “Cultura vs Civiltà”, quel “vs” in leggiadro corsivo fa intuire quanto siamo internazionali. Più avanti leggiamo “retrotopia”, bella strizzata d’occhio per noi che abbiamo letto Zygmunt Bauman – “retrotopia”, l’atteggiamento di chi crede che il miglior futuro sia nel passato, sta all’oggi come “società liquida” stava allo ieri e all’altro ieri. Il candidato è preparato, senza dubbio, e per impressionare la commissione tira fuori Voltaire e Rousseau. Il primo considerava l’individualismo una cosa buona e giusta, oltre che motore della civiltà. Il secondo considerava l’individualismo una fonte di odio e di emarginazione.

 

Non è il caso di addentrarsi nel dibattito (però possiamo cominciare a pensare dove potrebbe collocarsi Matteo Salvini e dove potrebbe collocarsi Luigi Di Maio, dopo che si sono fatti spiegare il dilemma dal presidente del Consiglio). Intanto prendiamo atto, solennemente, che “le contraddizioni dell’animo umano in un mondo secolarizzato, globalizzato e dominato dalla tecnica diventano ancora più esplosive”. Serio, astratto, pure in rima, minaccioso. Nulla che somigli a un manifesto politico.

 

Paolo Gentiloni, “La sfida impopulista”, Rizzoli

Titolo da decifrare. Supponiamo voglia dire: la sfida di quelli che populisti non sono, e anzi i populisti li combattono. Ma dentro c’è qualcosa che rimanda a “impopolare”, rischio che non era il caso di correre: “Con questi titoli non vinceremo mai”, sembra di sentire Nanni Moretti.

 

 

  

A pagina 69, vita quotidiana da presidente del Consiglio: un capo di stato offeso perché a Bologna indagano su suo figlio (“Erdogan nel suo nuovo strabiliante palazzo ad Ankara”, svela la pagina precedente) e chiede che si portino i suoi saluti a “l’amico Silvio”. Vladimir Putin che sorprende – oltre che per la puntualità che è la virtù dei re – con “la sua professionale cordialità, la sua competenza, e anche la decisione con cui difende il ruolo globale e gli interessi della Russia”.

 

Sfiniti prima che pagina 69 finisca, arriviamo alla logorrea di Raul Castro – e abbiamo saltato le righe su “i due grandi vecchi che hanno fatto (finora almeno) il miracolo della democrazia tunisina”. Nelle pagine sul summit di Taormina – leggiucchiate anche se non era nelle regole, i libri si aprono senza volerlo al punto giusto – i ringraziamenti familiari: “mia moglie, perfettamente a suo agio al debutto come padrona di casa”.

 

Tremiamo all’idea di fare la controprova di pagina 99, suggerita per un esperimento analogo dal romanziere Ford Madox Ford: viene in soccorso quando il primo carotaggio è così negativo che pare finto. Niente da fare: si parla di Europa, tra tutti i discorsi politici il più noioso, perché accoppia il massimo della retorica con il minimo della concretezza. Se poi si aggiunge la prospettiva storica, beato chi resta sveglio. Unico bottino, la citazione di Nino Andreatta, anno 1994: vietato adattarci all’idea di un’Europa “confortevole come una vecchia pantofola”.

 

Roberto Maroni, “Il rito ambrosiano”, Rizzoli

Il titolo promette Nord, in copertina c’è il biscione che ha accompagnato la storia di Milano fin dai Visconti (lo riciclò Silvio Berlusconi nel primo logo di Canale 5). E invece no, in alto a pagina 69 leggiamo: “Lo statuto siciliano e il rito dello schiaccianoci”: titolo di capitolo che attira l’attenzione del lettore, già un buon segno. Singolare invece la citazione del Manifesto di Ventotene che fu all’origine dell’idea di Europa, visto e considerato che la Lombardia aveva indetto un referendum per l’autonomia federalista, non più tardi di un anno fa.

 

  

 

“Non ha funzionato lo schiaccianoci”, insiste Roberto Maroni, guadagnandosi definitivamente i suoi 25 lettori (anche il numero è di rito ambrosiano, più precisamente manzoniano). “Schiaccianoci delle autonomie” – scopriamo leggendo un po’ avanti e un po’ indietro – è l’accordo firmato nel 2008 tra la Lega (che allora era ancora Lombarda) e l’Mpa, Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo (tutte le battute sul cognome sono già state fatte).

 

Sbirciando a pagina 70, la fantapolitica: “Se Bossi anziché nel 1941 fosse nato cinquant’anni prima, adesso quello italiano sarebbe uno stato federale, come la Germania”. Primo bel ragionamento controfattuale, a cui segue un altro ragionamento controfattuale “La Sicilia aveva l’Eldorado in casa, ma si è rifiutata di cercarlo”. Siccome non entriamo nel merito, ma nel modo di comunicare, Roberto Maroni lascia ogni tanto una frase a effetto, già un passo avanti. Ma i ragionamenti controfattuali – paiono ispirati al milanesissimo detto “se la nonna avesse le ruote…” – stonano con la promessa del sottotitolo: “Per una politica della concretezza”.

 

Marco Minniti, “Sicurezza è libertà”, Rizzoli

Titolo secco, da slogan politico. Sempre che il lettore ponga attenzione all’accento: non è detto che lo faccia quando legge, e mai lo coglierà quando ascolta. Bastano due righe della pagina 69, leggiamo e ci sentiamo spacciati: “Il piano di Eunavfor Med operazione Sophia, con scadenza a dicembre 2018”. Colpa nostra, certo, che non siamo stati abbastanza attenti, e non abbiamo fatto gli sforzi necessari per afferrare i dettagli della missione Sophia.

 

 

 

Possiamo dire a nostra scusante che ci occupiamo di altre cose, e che crediamo fermamente nelle competenze. Anche nel fatto che i politici debbano configurarsi come cinghie di trasmissione. Primo passo: fare le cose giuste. Secondo passo: trovare le parole giuste per spiegare che sono state fatte le cose giuste. Sopraffatti dalla minuziosa spiegazione di Sophia e di Frontex, e dall’incontro con i sindaci delle città costiere (maggiori particolari girando pagina, ma le regole del gioco vanno rispettate) svicoliamo a pagina 99.

 

Poche righe, siamo sfortunati. Riguardano “lo ius soli temperato dalle ius culturae”: l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti – da poco candidato alle primarie del Pd – affronta le questioni cruciali senza svicolare. Ripetiamo il carotaggio alla pagina 169, e si parla di Ocalan. A 199 si narra di Gheddafi che chiede all’Italia i danni di guerra (“la bonifica dei campi minati della seconda guerra mondiale… un imponente programma di sminamento che costava miliardi di vecchie lire”). Questioni serie e complicate, più per gli addetti ai lavori che per i lettori attirati dal titolo, o per i votanti in cerca di lumi. Applaudono soltanto i già convinti dalle parole “fabbrica della paura”.

 

Giuseppe Sala, “Milano e il secolo delle città”, La nave di Teseo

Prospettiva diversa, a cominciare dal titolo che restringe e insieme allarga l’orizzonte. Milano che come e più delle altre città vota Pd nei centri storici e se lo scorda nelle periferie. La città dell’Expo: un successo con il senno di poi, ma quando fu presentata la candidatura molti speravano nella vittoria della rivale Smirne, e fino all’apertura nessuno si sentiva di scommettere sulla riuscita della manifestazione. La città che non ha mai visto tanti turisti, che ha inaugurato la Darsena, che forse riaprirà anche i Navigli, che negli ultimi anni ha cambiato skyline e si è riempita di grattacieli. E le altre città che fanno da traino, collocandosi più avanti delle nazioni rispettive.

 

 

Apriamo a pagina 69, leggiamo “piano regolatore”, siamo subito dentro la questione. Seguono le parole “palazzinari, colate di cemento e corruzione”. Siamo con assoluta certezza dentro la questione che poi prende un’accelerata, perlomeno linguistica: “La ferita di Mani Pulite pulsa ancora e i grattacieli mezzi vuoti di Ligresti sono muti obelischi della crescita senza controllo”.

 

Il fraseggio non è il punto forte, neanche quando vola più basso. Andiamo avanti: “Resta il fatto che i principali progetti di quel periodo possono essere riassunti in alcuni esempi, dagli esiti diversi tra loro, che raccontano parabole molto interessanti di quel che è successo a Milano negli ultimi vent’anni, anche e soprattutto attraverso la nuova crisi economica che ha scosso nelle radici il sistema economico mondiale”. Presto, un ghost writer! O almeno un editor che tolga di mezzo le parabole, eviti le ripetizioni, sciolga i nodi, tagli un po’ di pagine: 336 pagine sono tante, gli altri politici stanno tra le 170 di Roberto Maroni e le 266 di Paolo Gentiloni.

 

Achille Occhetto, “La lunga eclissi”, Sellerio

Il titolo piange, il sottotitolo non ride: “Passato e presente del dramma della sinistra”. Argomenti inesauribile, tra mille sfumature di malinconia, o forse sarà nostalgia, anzi “retrotopia” come teorizza Zygmunt Bauman dopo aver liquidato la “società liquida”. Pagina 69 parla della Russia (leggi “Unione Sovietica”) ma Achille Occhetto scrive proprio “Russia”. Con un linguaggio che credevamo perduto, astratto e contorto, guai a farsi capire, mai un concetto chiaro – non ci si libera facilmente del politichese da comitato centrale: “Tutti gli eventi fin qui descritti dimostrano che il realismo e il tatticismo se non inseriti in un chiaro orizzonte strategico, fondato sulla conoscenza storica, possono capovolgere i successi immediati in perdite storiche irrimediabili”.

 

 

Pagina 69 non è finita: “Eravamo stretti dentro una morsa che da un lato era caratterizzata dalla cieca, e altrettanto ideologica, criminalizzazione condotta dalle forze conservatrici e, dall’altro, da una mitologia fuorviante”. Tradotto, significa: guai a chi osava pronunciare (in occidente dove si sarebbe potuto) una parola contro Stalin.

 

Sfogliando l’indice, nell’ultimo capitolo intitolato “Il futuro” (finalmente, siamo quasi a pagina 200) l’occhio cade sul titoletto “L’Araba Fenice della sinistra”. Impossibile resistere: il mitologico animale è celebre per risorgere dalle sue stesse ceneri, si intende dopo morto. Una frase, un rigo appena, insomma qualcosa che dia una speranza anche minima? Macché. Un altro po’ di retrotopia: “quando avevo 17 anni ogni mese portavo i bollini della tessera Pci, raccoglievo i soldi dei lavoratori e ascoltavo le loro opinioni, poi diffondevo l’Unità”. Ma il futuro, ed eventualmente il partito? “Una cabina di coordinamento di una creatività diffusa”.