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Perché la sicurezza è libertà

Marco Minniti

Come gestire i flussi migratori e la paura. Il nuovo rapporto con l’Africa (investimenti, non carità). Il passo indietro del governo nazionalpopulista, un salto nel buio. In anteprima un capitolo del nuovo libro di Marco Minniti

Pubblichiamo un capitolo di “Sicurezza è libertà. Terrorismo e immigrazione: contro la fabbrica della paura” dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (Rizzoli, 224 pp., 19 euro), da domani in libreria.


Pur tra mille contraddizioni, alla fine del 2017 e all’inizio del 2018 l’iniziativa italiana aveva plasticamente portato a un esito: per la prima volta l’Europa si era convinta, o era stata indotta, a impegnarsi su un principio che io ritengo cruciale, e cioè che l’unica via per raggiungere il controllo dei grandi flussi migratori è costruire un rapporto tra l’Europa e l’Africa. Non era così prima del 2017. Prima l’impatto era essenzialmente solo sull’Europa. La rotta balcanica era ormai sotto controllo grazie a investimenti straordinari a favore della Turchia, ma per quanto riguardava il Mediterraneo centrale non si poteva dire altrettanto. E tuttavia l’iniziativa italiana in Africa settentrionale era riuscita a tracciare un percorso proponendosi come apripista. Due tappe erano state cruciali: l’incontro a Parigi del 28 agosto 2017, quando una parte dell’Europa, quella più legata alla vicenda dei flussi migratori, quindi Germania, Italia, Francia e Spagna, e alcuni Paesi africani avevano deciso di darsi una comune strategia per l’intervento in Africa. La seconda tappa era stata il summit tenuto ad Abidjan, in Costa d’Avorio, dove l’Europa aveva compiuto un ulteriore passo avanti. Lì, oltre all’Ue, erano presenti i Paesi interessati dai flussi migratori, quelli di transito e quelli di partenza, era presente l’Unione africana, ed erano presenti le Nazioni Unite. Tema dell’incontro: come affrontare la questione del governo demografico a partire dall’Africa. Con due presupposti, entrambi molto importanti: il primo era quello di intervenire in Libia e in Niger, Paesi di transito, per sostenere l’attività delle organizzazioni dell’Onu. L’obiettivo era quello di separare coloro che avevano diritto alla protezione internazionale, concedendo direttamente in quei Paesi il riconoscimento a cui avrebbe fatto seguito una ridistribuzione in Paesi terzi sulla base della regia dell’Unhcr, dai cosiddetti migranti economici, che invece sarebbero stati rimpatriati attraverso procedure volontarie e assistite dall’Organizzazione mondiale dell’immigrazione nei Paesi di provenienza. Tutto questo alla fine del 2017 era diventato un progetto concreto. I primi corridoi umanitari e contemporaneamente migliaia di rimpatri volontari assistiti. Tutto dalla Libia. Cominciava a delinearsi un “metodo”, un modello di intervento dall’altra parte del Mediterraneo. Se poteva funzionare in Libia...

  

   Un dato: tra il 2017 e i primi mesi del 2018 l’Italia ha fatto più di 11.000 ricollocamenti. Alla fine del 2016 erano poco più di 2.500. Il gruppo di Visegrad non ne ha accolto nemmeno uno. Il nuovo governo italiano ha riportato drammaticamente l’immigrazione dentro i confini europei

  

Secondo presupposto: avviare una politica di investimenti in Africa. Si badi bene, non aiuti ma investimenti. Era finalmente chiaro all’Europa che l’intervento in Africa non era un’operazione di carattere caritatevole. Investire in Africa per l’Europa significa investire per la sua sicurezza, la sua coesione sociale, la sua crescita economica. In una parola sul suo futuro. Il tema dell’immigrazione e il tema del cambiamento del trattato di Dublino erano ancora al centro della discussione europea, ma riportandoli dentro una normale dialettica si era fatta scendere sensibilmente la febbre. Rimanevano certo grandi nodi irrisolti come la sfida dell’impegno solidale, il problema del superamento del limite di accoglienza, il problema del Paese di primo approdo. E soprattutto rimaneva la questione di come superare la proterva non accettazione dei ricollocamenti da parte del cosiddetto gruppo di Visegrad.

  

Un dato: tra il 2017 e i primi mesi del 2018 l’Italia ha fatto più di 11.000 ricollocamenti. Alla fine del 2016 erano poco più di 2500. Il gruppo di Visegrad non ne ha accolto nemmeno uno. Il nuovo governo nazionalpopulista italiano ha, invece, riportato drammaticamente l’immigrazione dentro i confini europei. Sin dal suo insediamento, si è mosso nella direzione opposta a quella che era stata fino ad allora intrapresa. L’ha fatto per due ragioni, entrambe di carattere strategico. Il primo obiettivo dei nazionalpopulisti è quello di provocare l’implosione dell’Unione europea, di cambiarla radicalmente. Coltivando un’idea di Europa delle piccole patrie, si mette al centro il tema della nazione e del confine che separa ogni singolo Paese europeo. In questo modo, però, si mette in discussione quello che è stato il primo motore dell’Unione europea: il superamento dei confini. Se l’Unione europea perde il principio del superamento dei confini perde se stessa. L’assalto all’Europa, alla sua concezione originaria, ai suoi valori viene fatto sul terreno dell’immigrazione perché l’altro terreno sul quale era possibile, l’economia, prefigurando una fuoriuscita unilaterale dalla moneta unica, è considerato troppo difficile. Il governo nazionalpopulista, infatti, si è reso immediatamente conto che dal punto di vista politico l’effetto dell’immigrazione è altrettanto dirompente ma ha il vantaggio di non provocare ripercussioni sui mercati internazionali. Quindi, coloro che avevano puntato sulla carta di attacco all’Europa pensando all’uscita dall’euro hanno individuato un altro modo per mettere in crisi l’Europa. Ed è un modo meno costoso, che li espone di meno. Rinunciano alla carta dell’euro perché il prezzo da pagare sarebbe difficilmente gestibile proprio sul terreno della coesione sociale del nostro Paese. E scelgono l’immigrazione. Non c’è lo spread delle politiche dell’immigrazione, ma l’elemento dirompente è politicamente identico.

  

Infatti, quando il nuovo governo si è insediato era sotto gli occhi di tutti che non esisteva un’emergenza migranti: per quanto riguardava i flussi complessivamente intesi, si era registrato un −78 per cento degli arrivi in Italia, −85 per cento dalla Libia. Non c’era un’emergenza e tuttavia al primo arrivo di una nave di una Ong hanno chiuso i porti. Non c’era un problema d’accoglienza nel nostro Paese. Nel momento in cui è arrivata la nave, gli hotspot erano largamente vuoti ma si è trasformata quell’occasione in un elemento di rottura. Probabilmente ha contato molto anche un elemento di mera contingenza politica. L’Aquarius è arrivata in Italia il 10 giugno, giorno delle elezioni amministrative. Il ministro dell’Interno ha bloccato la nave perché la sua decisione poteva avere un’immediata ripercussione sul risultato elettorale. Il secondo motivo era che la vicenda consentiva di riaprire un contenzioso con gli altri Paesi europei. La situazione non è precipitata dal punto di vista umanitario soltanto perché la Spagna – da pochissimi giorni guidata dal nuovo governo socialista di Pedro Sánchez – ha deciso di dar loro accoglienza. Una misura di carattere straordinario. La disponibilità di un singolo Paese. Ma dietro quel gesto non c’era una volontà conclamata di cambiare il trattato di Dublino. Tutto questo sarebbe stato ancora più evidente durante il vertice di Bruxelles che avrebbe dovuto gestire il post Aquarius.

  

Utilizzare l’immigrazione come ordigno fine mondo per far saltare l’Europa è il primo elemento strategico dei nazionalpopulisti. Il secondo elemento strategico è quello rappresentato dalla comunicazione politica. Una vera e propria strategia della tensione comunicativa. Non si può far abbassare la tensione. Per coloro che devono tenere gli italiani incatenati alle loro paure non è consentita la comunicazione che le ragioni che possono alimentare l’ansia sono finite o che in ogni caso sono sotto controllo. Occorre trasmettere un messaggio: la minaccia non è cessata, anzi rimane sempre permanente. Parallelamente è dunque cominciata la cosiddetta politica del battere i pugni sul tavolo. Finalmente l’Italia batteva i pugni sul tavolo. Si è partiti per Bruxelles e il vertice europeo, dopo averlo preparato come se fosse la resa dei conti definitiva nel rapporto dell’Italia con l’Europa. L’Italia si è presentata forte di una strategia che metteva in discussione i legami tradizionali con i Paesi interessati alla politica mediterranea, la Francia, la Germania, la Spagna, costruendo un inedito asse con l’Europa centrale, in questo caso il gruppo di Visegrad, quindi con Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia. Se ci si pensa bene, ci siamo trovati di fronte a una vera e propria contraddizione in termini: l’Italia chiedeva più solidarietà all’Europa e nel farlo si alleava con coloro che gliel’hanno sempre negata in via di principio e ancor di più nei fatti. Appare così chiara l’impossibilità di costruire un’“internazionale nazionalpopulista” che abbia obiettivi positivi, che costruisca soluzioni, che risolva problemi comuni.

  

Essa, infatti, ha un limite oggettivo e strutturale. Non può esserci un’internazionale tra Paesi fondati sul principio dei confini. Se per ognuno di loro il confine è sacro, è chiaro che i singoli confini entrano immediatamente in contraddizione tra di loro. Ed è una contraddizione “sacra”, costituita da elementi irrinunciabili. Può esistere un’assonanza ideologica, ma non una visione comune. Anzi, può esistere ma soltanto nella sua versione distruttiva; un’alleanza tattica per distruggere un’altra realtà, sovranazionale.

  

La sensazione che si è data è che l’Africa fosse scontata o poco importante. I fatti ci dicono esattamente l’opposto. Che non era stabilizzata per sempre. La cosa più preoccupante, tuttavia, è che, nonostante tutti gli sforzi diplomatici, l’Europa appare nei rapporti con la Libia percorsa da un male oscuro, divisivo

  

Sta in questa contraddizione in termini la lettura del doppio scacco che l’Italia ha ricevuto a Bruxelles nel luglio 2018. I nazionalpopulisti sono partiti con l’idea di dover cambiare il trattato di Dublino. L’esito è stato ben diverso: il trattato di Dublino non è stato nemmeno posto in discussione. Di fatto si è rinviata la decisione, molto probabilmente a dopo le elezioni europee del 2019. Sapendo perfettamente che, se alle prossime europee dovessero vincere i nazionalpopulisti, il trattato di Dublino non si cambierà mai. I principali oppositori al cambiamento in senso solidale del trattato di Dublino sono i principali alleati del governo italiano. Quindi l’Italia sta affidando le pecore al lupo. Si è cacciata, poi, in un enorme cortocircuito decisionale: si è posticipata sine die la modifica del trattato di Dublino, ma, contemporaneamente, a Bruxelles sono state prese altre due decisioni, due mele avvelenate. I ricollocamenti, già difficili nel momento in cui erano considerati obbligatori dall’Unione europea, da obbligatori sono diventati volontari. Quindi, di fatto, si è riconosciuta la legittimità delle posizioni del gruppo di Visegrad che aveva contestato durissimamente l’idea dei ricollocamenti obbligatori. E, mentre si faceva questo, si confermavano invece come obbligatorie le procedure di rimpatrio verso il Paese di primo approdo. Il Paese di primo approdo è l’Italia. Un “capolavoro diplomatico”! Quella parte a noi favorevole che era obbligatoria è diventata volontaria, quella parte a noi sfavorevole che era obbligatoria è rimasta obbligatoria.

  

Per avere un’ulteriore conferma dello scacco, basta pensare alla vicenda della nave Diciotti. Quello che è accaduto è senza precedenti per il nostro Paese. Per nove giorni è stato rifiutato l’approdo a una nave della Guardia costiera italiana, con un equipaggio con militari in divisa, con le stellette, e che aveva operato nel pieno rispetto della missione principale del corpo: la ricerca e il salvataggio in mare. Non c’era alcuna ragione per farlo: non c’era un’emergenza, non c’era un problema di ordine pubblico né di sicurezza. Eppure si è negato l’approdo. Si è avviata una trattativa diplomatica mettendo in campo come contropartita la vita di persone in carne e ossa. Un grande Paese non usa “ostaggi” per le sue trattative diplomatiche. Un segno insieme d’arroganza e di debolezza che si è rovesciato esattamente nel suo opposto. Con il caso della Diciotti infatti l’isolamento dell’Italia è diventato icastico, nel silenzio assordante degli “alleati strategici” del governo italiano. Nessun Paese europeo ha inteso, infatti, farsi carico di quei migranti. Gran parte di loro, poi, erano eritrei e quindi rientravano tra gli aventi diritto alla protezione internazionale. L’isolamento si è toccato con mano. Ma in quei giorni si è consumato un altro drammatico strappo. Quelle immagini di una nave militare italiana tenuta in rada con i motori accesi nel porto di Catania senza poter attraccare ha segnato lo scacco di una visione condivisa del funzionamento delle istituzioni dello Stato. Insieme un paradosso e un rovesciamento. I paladini dell’idea di nazione diventavano attori di un conflitto tra corpi dello Stato senza precedenti. Una nave militare italiana, in un porto italiano, trattata come una nave straniera.

  

Isolati, divisi, conflittuali. E’ come se qualcuno in Italia avesse deciso di riportare indietro gli orologi del nostro Paese e dell’Europa. Si è ritornati bruscamente alla primavera-inizio estate del 2017. Il tema dell’immigrazione che, faticosamente, molto faticosamente, era diventato il cuore di un nuovo rapporto tra Europa e Africa viene riportato dentro i confini dell’Europa con un effetto deflagrante.

  

E l’Africa?

Le forti tensioni registrate a Tripoli all’inizio di settembre 2018 si collocano dentro questo cambiamento di clima. L’Europa appare improvvisamente più lontana e più divisa. E’ ripartito il “demone” dell’instabilità e dei conflitti tra milizie. E’ chiaro che la vicenda ha un epicentro esclusivamente libico e cioè l’equilibrio tra le varie fazioni che operano a Tripoli. Non siamo al centro di un complotto internazionale.

  

Tuttavia, la Libia è uno dei teatri più sensibili al mondo. Quello che più direttamente e immediatamente risente di ogni minimo “movimento” nelle relazioni tra i numerosi “attori” globali e regionali interessati. È insieme infantile e poco responsabile pensare che una politica euromediterranea gestita con la stessa delicatezza di un elefante in una cristalleria non abbia alcun effetto collaterale. La sensazione che si è data è che l’Africa fosse scontata o poco importante. I fatti ci dicono esattamente l’opposto. Che non era stabilizzata per sempre o assolutamente poco importante. La cosa più preoccupante, tuttavia, è che, nonostante tutti gli sforzi diplomatici, l’Europa appare nei rapporti con la Libia percorsa da un male oscuro, divisivo. Un’Europa debole perché divisa sarà sempre meno capace di svolgere un ruolo positivo nella realtà libica. La stabilizzazione della Libia comporta la capacità di tenere insieme più protagonisti a partire dalla Tripolitania e dalla Cirenaica. Sapendo, tuttavia, che la Libia odierna è “policentrica” par excellence, penso per esempio al ruolo di Misurata, la piccola Sparta, e del Fezzan. Non c’è, tuttavia, stabilizzazione vera se non si tiene saldo l’orizzonte delle elezioni, della parola al popolo. Una cosa è dire con grande chiarezza che bisogna costruire tutte le condizioni di “sicurezza” e trasparenza affinché le elezioni possano tenersi, altra cosa è evocare lo spostamento sine die delle elezioni. Perché dentro quel percorso che aveva consentito una way out dopo Skhirat nel dicembre 2017 era ed è centrale l’orizzonte delle elezioni. Cancellare quell’orizzonte è impossibile e sarebbe un errore catastrofico. Spetta ai libici stabilire il percorso, stabilire i tempi. Noi dobbiamo soltanto non dimenticare che non c’è vera stabilizzazione senza autodeterminazione.

  

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