Marco Minniti (foto LaPresse)

Al congresso c'è Minniti

Annalisa Chirico

Un appello “unitario” di sindaci renziani lancia l’ex ministro contro Zingaretti. Il nuovo schema nel Pd

Roma. Matteo Renzi ha deciso. I renziani hanno un candidato alle primarie pd, il suo nome è Marco Minniti. L’ex premier osserva sondaggi e performance tv, inventa ipotetiche candidature per sondare l’effetto che fa, ascolta consiglieri ufficiali e ufficiosi, si mostra attento e interlocutorio con tutti, alla fine decide di testa sua. Sarà l’ex ministro dell’Interno che ha risolto l’“emergenza” migranti quando si poteva ancora definire tale, il civil servant che si è appuntato al petto la medaglia del meno-ottanta-per cento di sbarchi nel giro di un anno, lo stratega meticoloso che conosce gli apparati di sicurezza come pochi e vanta una rete di contatti internazionali di primo piano. 

     

Celebrato dalla stampa internazionale (“The Lord of Spies” per il New York Times, il “Minniti Method” per l’Economist, il burattinaio della “Desert Diplomacy” per Politico), Minniti è un battitore libero, un solista di partito che da piccolo sognava di diventare pilota e che nell’ultimo ventennio ha coltivato una expertise assoluta nel campo della sicurezza. Come auspicato dal Foglio in tempi non sospetti (30 luglio), si prefigura dunque un duello Minniti-Zingaretti, tra l’ex ministro dell’Interno e il presidente che governa la regione Lazio con una maggioranza risicatissima ed è interprete di un’altra idea di sinistra alternativa al modello Renzi e meno ostile rispetto al rapporto con il M5s. Il 20 ottobre Minniti interverrà alla Leopolda, a Firenze, dove non era mancato neanche lo scorso anno, e dove è tornato, agli inizi di luglio, per l’esattezza a Scandicci, in occasione della Festa dell’Unità, e lì, in modo inaspettato, è giunto l’invito di Renzi a cena.

 

Tra pochi giorni uscirà nelle librerie il suo libro, “Sicurezza è libertà” (Rizzoli), un manifesto “contro la fabbrica della paura” a vent’anni esatti dal 1998 quando Massimo D’Alema lo chiamò per la prima volta al governo, ai Servizi per l’appunto. Pare che, in realtà, la “carta Minniti” fosse in cima ai desiderata dell’ex segretario già da qualche mese ma si è usato massimo riserbo per preservare una candidatura considerata il vero asso nella manica, e da ieri sostenuta con un appello di tredici sindaci democratici, da Dario Nardella a Giorgio Gori passando per Antonio Decaro e Matteo Ricci. Del resto, in tempi di sovranismo vs globalismo, Minniti può provare a giocare la carta della difesa della società aperta ed europeista e dare una risposta al salvinismo con un approccio sull’immigrazione pragmatico e non populista. Secondo i bene informati, sulle prime l’ex inquilino del Viminale sarebbe parso incerto, financo riluttante all’idea di essere tirato in ballo in una competizione diretta e inevitabilmente aspra, infine ha ceduto. “Devi scendere in campo, tu sei la figura da cui il Pd può ripartire”, le parole dell’ex premier. “Solo Minniti può riuscire”, è l’idea di Renzi che, fedele alla linea annunciata qualche settimana or sono (“Io ho già dato, ho vinto due volte”), intende dedicarsi alla costruzione di un’offerta politica totalmente nuova in risposta alla sfida sovranista e la sua candidatura spariglia le carte nel Pd. Con chi si schiererà ora Paolo Gentiloni, fino a oggi in buona sintonia con il governatore del Lazio? E quanto ci vorrà prima che l’ex alleato di Renzi, Matteo Orfini, schieri un suo candidato per svincolarsi dall’ex ministro? Il “metodo Minniti” – né con Salvini né con Saviano – è stato scandito dall’ex ministro all’indomani della sconfitta del 4 marzo. Il paradigma politico, lo scontro, è mutato, “non abbiamo compreso la rabbia e la paura delle persone”. E per questo l’appuntamento di maggio 2019 è un tornante decisivo: “Saranno le elezioni europee più importanti nella storia dell’Unione – ha dichiarato ieri a Palazzo Wedekind. L’Europa delle piccole patrie non è in grado di affrontare la sfida della modernità, servono grandi taglie. Bisogna costruire l’alternativa a chi vorrebbe trasformare il nostro paese nell’Ungheria del Mediterraneo”. When the going gets tough, the tough get going.

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