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L'immigrazione senza like

Marco Minniti

E’ un fenomeno epocale, non un’emergenza. Governare il flusso dei migranti come se fosse uno spot rende l’Italia più fragile. Alla paura si risponde con la legalità, non con meno umanità. Perché il sovranismo mette in pericolo l’interesse nazionale

La prima cosa da capire è che l’immigrazione non è un’emergenza. E’ un problema, certo, che non solo l’Italia e l’Europa ma il mondo intero si trovano ad affrontare ciclicamente assieme ad altre questioni anche più drammatiche o a dossier per così dire di ordinaria amministrazione: le guerre, la povertà, il debito, i dazi. Ma emergenza no, lo nego. Eppure proprio sull’immigrazione in Europa i nodi sono arrivati al pettine, e resta il rischio di una crisi nell’Unione europea nel suo complesso e nei singoli paesi a cominciare dalla Germania, fino a ieri simbolo di stabilità. Ma perché tutti i nodi vengono al pettine in questo momento, rafforzando e moltiplicando l’immagine dell’emergenza? Perché di fronte alla difficoltà di intraprendere negli ultimi anni iniziative forti, solidali – nel senso di condivise tra i governi – e coerenti, c’è stato uno spostamento significativo, perfino drammatico, dell’opinione pubblica. E i partiti, non solo in Italia ovviamente, fanno la loro parte nel creare la classica separazione tra realtà e politica. Dunque il cuore della questione è che si è ormai accettata, anche nella comunicazione che su questo argomento gioca un ruolo chiave, l’equazione tra la parola immigrazione e la parola, appunto, emergenza. Fateci caso: nei sottopancia dei tg scorre sempre il titolo “emergenza immigrazione”: magari anche quando segue una buona notizia, o una notizia di routine. E’ stato l’approccio più drammatico e sbagliato: perché, ripeto, l’immigrazione non è un’emergenza. E’ un fenomeno epocale che nella storia ha appunto accompagnato tutto il mondo, non solo l’Italia e l’Europa.

 

“Non basta dare la colpa a chi ora grida di più. La sinistra ha capito tardi che si giocava una partita cruciale del rapporto con gli elettori”   

 

Il messaggio dell’emergenza è non solo sbagliato ma devastante, in quanto evoca il massimo di ansia in chi ascolta, e chi ascolta si sente a sua volta messo in pericolo nelle sue condizioni di vita. E poi perché se è emergenza, la conseguenza ovvia è che va affrontata immediatamente, magari senza riflettere troppo, e con strumenti straordinari. Secondo punto: l’emergenza trasmette l’idea che si tratta di un fenomeno congiunturale, di questo momento, che quindi va affrontato (neppure risolto) a tamburo, e se affrontato non è che si aggravano le condizioni di vita degli italiani e degli europei. Ma se il fenomeno, come io credo, è invece non una congiuntura straordinaria e immediata, ma una grande questione strutturale e dunque complessa, allora non lo si affronta con strumenti di emergenza, ma con misure altrettanto strutturali. Questo riguarda l’Europa continentale, l’Italia, ma anche altre parti del mondo. Basta pensare a come la percezione dell’emergenza-immigrazione ha determinato la Brexit e influito sull’elezione di Donald Trump.

 

 

 

In questa situazione non basta dare la colpa a chi ora grida di più. La sinistra riformista italiana ed europea ha capito tardi che si giocava una partita cruciale del rapporto con gli elettori. Non ha visto che la parte più esposta al messaggio non erano i centri storici, benestanti e istruiti delle città, ma le periferie. Non solo in Italia, ovvio. Si doveva parlare un linguaggio di verità, ma che a sua volta avesse un prerequisito: capire che le società moderne sono attraversate da due sentimenti. Il primo sentimento è la rabbia, il secondo è la paura. E rabbia e paura investono le realtà più deboli. Una sinistra moderna non può rompere un canale, diciamo, sentimentale con coloro che provano rabbia e con coloro che provano paura. Se non li ascolta la sinistra, chi lo fa? A chi prova rabbia per la sua situazione economica e sociale, non puoi rispondere con la freddezza delle cifre. L’Istat dice che l’Italia ha 5 milioni di poveri, aumentati in questi anni: non puoi ripetergli sempre che però il pil è tornato in positivo. Sì, e chiaro che il pil è importante, fondamentale; ma pensare che solo quel passaggio di trattino da meno a più sul prodotto interno lordo costituisca la rassicurazione per la parte più esposta delle popolazioni è una drammatica illusione. Quanto poi alla paura, è un sentimento molto profondo, talmente profondo che chi ha paura a volte non riesce neppure a confessarla alle persone più vicine, e se l’approccio della sinistra è una sorta di superiorità morale, quasi di biasimo, che a livello subliminale dice che chi ha rabbia e paura si fa strumentalizzare dal nemico, a quel punto si alza un muro. Un muro che chiude qualunque tipo di comunicazione. Devi dimostrare di ascoltare chi ha rabbia, devi lavorare perché quelli che hanno paura trovino in te un interlocutore fidato. Questa, sull’immigrazione, è la differenza tra un progetto riformista e un progetto nazional-populista.

 

“Le società moderne sono attraversate da due sentimenti, la rabbia e la paura.
Che investono le realtà più deboli”

 

Quando sono divenuto ministro dell’Interno, nel dicembre 2016, ho cercato di fare quel che va fatto in una grande democrazia: nella quale non si può promettere che l’immigrazione verrà cancellata, è impossibile e neppure auspicabile se non altro per i nostri evidenti squilibri demografici. Però una democrazia ha il dovere di governare i flussi dell’immigrazione, gestire un elemento strutturale della vita del pianeta facendo appunto capire che non è un’emergenza, e che ci sono due principi che in ogni democrazia, anzi in ogni persona, devono e possono convivere: il principio di accoglienza e il principio di sicurezza. Oscilliamo tra questi valori: umanità e sicurezza, libertà e sicurezza.

  

Nel 2017 sono stati effettuati circa 20 mila rimpatri. Al di là di questo, il programma sul quale abbiamo puntato è l’accoglienza diffusa, cioè il superamento dei grandi centri di accoglienza.
La diffusione, la polverizzazione degli immigrati sul territorio elimina l’effetto ghetto e riduce i timori della popolazione

I nazionalpopulisti dicono: o prendi l’una o prendi l’altra. Se scegli la sicurezza, non c’è accoglienza che tiene. Non c’è umanità. E inoltre se scegli la sicurezza, allora rinunci a un pezzo delle tue libertà. Ma così metti in discussione i valori fondativi delle nostre democrazie. Si può scendere nel dettaglio delle varie proposte, ma ciò che intanto viene fuori da questo nuovo governo italiano nazionalpopulista è un’idea di società chiusa. Anche la lotta contro l’Europa – che sicuramente su alcune questioni è comprensibile perché i barocchismi e le varie ipocrisie europee li contrasto anch’io in maniera fermissima – dà la sensazione di non essere su questa o quella procedura, ma proprio sui valori fondativi dell’Europa stessa, anzi sui valori della liberaldemocrazia. Si considera l’Ungheria un riferimento: ma l’Ungheria sta slittando verso l’autocrazia. Propone che venga inserito il divieto di accoglienza nella costituzione europea dopo averlo fatto con la propria. Il parlamento di Strasburgo ha espresso gravissima preoccupazione per questo, con una maggioranza molto ampia, e sorprende che non fossero presenti i nostri europarlamentari di governo. Ma che in Europa si affermi e si allarghi l’idea di una società chiusa allude a un drammatico salto nel buio. Un baratro, che ci porta dove l’Europa negli ultimi settant’anni ha consentito che non si andasse più.

     

L’integrazione è cruciale nelle società moderne, lo sarà sempre di più. Lo stesso terrorismo islamico, l’abbiamo visto da Charlie Hebdo al Bataclan a Bruxelles, non viene dai rifugiati per le guerre in Iraq e Siria ma da immigrati di seconda o terza generazione in Francia o Belgio: dunque il terrorismo è figlio di una sbagliata integrazione. Se questo è il dato, bisogna comunque tenere conto di due diritti fondamentali: il diritto di chi è accolto e il diritto di chi sta accogliendo. La democrazia è basata sull’equilibrio dei diritti e in questo caso l’unico modo di tradurre l’equilibrio in pratica è di attuare un’accoglienza diffusa, basata sui piccoli numeri in rapporto alla popolazione, e non sui ghetti. Ma c’è una seconda questione: i tempi certi per la valutazione del diritto alla protezione umanitaria. Siamo intervenuti per tagliare drasticamente quei tempi, sopprimendo un grado di giudizio. E per questo sul decreto Minniti-Orlando è stato fatto ricorso, da parte dell’Associazione studi giuridici democratici sull’immigrazione, alla Corte di Cassazione con l’accusa di incostituzionalità. Bene, il 27 giugno la Cassazione ha respinto quel ricorso, non ravvisandovi gli estremi per trasmetterlo a sua volta alla Corte costituzionale. In più abbiamo assunto 250 nuovi specialisti per le commissioni di asilo sul territorio. Fino a un anno fa mediamente ci volevano due anni per valutare le domande. L’obiettivo è arrivare a sei mesi. Questo consente di mandare un segno molto chiaro, rispetta il diritto di chi è accolto e contemporaneamente dice a una comunità che l’accoglienza non è sine limite.

 

Ma è poi evidente come in tutto questo giochi un ruolo determinante la percezione che l’opinione pubblica ha degli immigrati, in Italia e nel resto d’Europa. Sono partito proprio da questo. Ed è altrettanto evidente che si possono ridurre i flussi migratori e gli sbarchi, come si sono ridotti drasticamente verso le nostre coste, ma poi ci si chiede che cosa fanno i migranti una volta sparsi sul territorio nazionale. Se bighellonano per le città, bivaccano o peggio delinquono, l’accoglienza diventa difficile. E ancora più diventa vero che l’accoglienza deve conciliarsi sia con il sentimento di sicurezza sia con la capacità di integrazione. Ma intanto è chiaro che quanti meno ne arrivano, tanto più il problema – che esiste – si ridimensiona. Nel 2017 sono stati effettuati circa 20 mila rimpatri, il 15 per cento in più dell’anno prima. In questo momento siamo il secondo paese europeo che rimanda a destinazione più persone senza diritto di asilo, in cifre assolute e percentuali, dopo la Germania, dove ovviamente il sistema è assai più rodato. Al di là di questo, il programma sul quale abbiamo puntato è l’accoglienza diffusa, cioè il superamento dei grandi centri di accoglienza, più o meno ben gestiti (spesso gestiti male, e lì come dicono le notizie di queste ore il business lo fanno gli italiani); ma soprattutto la diffusione, la polverizzazione degli immigrati sul territorio elimina l’effetto ghetto e riduce i timori della popolazione. L’accordo stipulato con l’associazione dei comuni italiani prevede come media 2,5 immigrati accolti ogni mille abitanti, su base volontaria e con incentivi alle amministrazioni. Avremmo una diffusione a bassissimo impatto sociale, a migliore controllo, e che contempererebbe due diritti, quello di chi accoglie e di chi è accolto. Il problema è che la Lega dice ai suoi sindaci di non accogliere nessuno, e nelle regioni leghiste non esiste ancora nessun Cie, che sono i centri di identificazione e accoglienza. Eppure questo non significa che in Veneto o in Lombardia, o in Liguria, non ci siano immigrati fuori controllo. Semplicemente si preferisce girare la testa dall’altra parte, scaricare il fardello sugli altri, scegliere la politica dei simboli e non della responsabilità. La società chiusa.

 

 

 

Se questo è il quadro generale, pratico e di valori, sia sul fronte dei flussi sia su quello dell’accoglienza, le conseguenze pratiche a breve sono, intanto, che rischiamo di giocarci il trattato di Schengen che dal 1990 consente a noi europei la libera circolazione di persone e merci in base all’apertura delle frontiere. E’ un pericolo non dico imminente, ma immanente. Non so se abbiamo idea di cosa ci sia in ballo: senza circolazione di persone e merci non solo non c’è più Europa, ma è anche un ritorno all’epoca dei nazionalismi contrapposti. Se ognuno chiude le sue frontiere, poi, in un clima di generale ripresa dei nazionalismi, avremo una gigantesca contraddizione. E cioè che il nazionalismo di ogni singolo paese è, per sua natura, del tutto alieno dalla possibilità di costruire alleanze con chiunque abbia la stessa vocazione. Ed è il paradosso nel quale si trova il nazionalpopulismo italiano: l’idea di stabilire un’alleanza strategica con altri paesi che condividono il medesimo ideale antico di supremazia nazionale, impedisce di per sé l’alleanza stessa. Ogni nazione alza il proprio confine contrapposto al tuo. Quel confine diventa un elemento identitario, ma anche insuperabile nella pratica, di assoluta incomunicabilità. Ecco: i problemi veri, al di là delle polemiche contingenti, non li abbiamo con la Francia ma più ancora li abbiamo e li avremo con l’Austria e con il blocco di Visegrad, cioè Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia. Dunque si può avere quanto si vuole una stessa condivisione ideologica del destino sovrano, ma poi arriva il problema: si chiude o non si chiude il confine del Brennero? E se la soluzione viene affidata all’ideologia, il confine si chiuderà. E questo è, oltre al resto, un drammatico danno per l’Italia. L’inizio di molti drammatici danni.

 

Esattamente questi sono secondo me il limite e gli errori di queste settimane. Il nazionalpopulismo avrà come esito due questioni. La prima, è che quel modello è destabilizzante in radice per l’Europa. Ecco il cuore della faccenda: l’Italia senza l’Europa o separata dall’Europa è più debole e più fragile. Le regioni governate dalla Lega, che basano sull’Europa e quindi sull’euro, i loro commerci e la loro ricchezza, lo sanno perfettamente. Seconda questione: se si guarda alla discussione di questo mese di giugno, e poi si torna alla discussione del giugno 2017, troviamo un’impressionante identità di polemiche. Si parla di ondate di migranti, di chiusura di porti, delle Ong, del trattato di Dublino. Si parla della difficoltà dell’Europa di farsi carico di tutto questo. C’è una piccola differenza, però. 

   

Un altro tipo di migrazione è possibile. In Libia si è costruito un modello tra noi, loro e le Nazioni Unite. Concordato un protocollo per la costruzione di un centro sotto controllo Onu in cui ospitare i migranti, verificando chi ha diritto e chi no alla protezione in Europa.
Il modello degli hotspot laggiù non funziona

Nel giugno 2017 questa discussione avveniva con l’80 per cento di sbarchi in più, l’85 per cento dalla Libia, e quindi un anno fa esisteva effettivamente un ubi consistam, un grosso problema, un dato sostanziale: come l’Europa doveva affrontare una situazione, quella sì, che appariva eccezionale, e senza nessun tipo di precedente. A giugno 2017 accadde che in 36 ore arrivarono in Italia 26 navi: 13.500 persone contemporaneamente. Ma ora sembra che qualcuno abbia riportato l’orologio indietro. In questi 12 mesi l’Italia aveva fatto un’operazione politica straordinaria: avevamo trasformato la questione dell’immigrazione da elemento che rischiava di fare implodere l’Europa a questione tra Europa e Africa. Insomma, nell’ultimo anno il problema era stato non “che fa l’Europa nei propri confini”, ma “che fa l’Europa nel rapporto con l’Africa, dunque fuori dei suoi confini esterni”. Nell’ultimo mese abbiamo al contrario riportato il problema dentro l’Europa. Esclusivamente dentro l’Europa. Questo è il secondo errore strategico. L’immigrazione si governa se è al centro di un nuovo rapporto tra Europa ed Africa. Se non è al centro di un nuovo rapporto tra Europa ed Africa, non si governerà mai. Puoi fare tutti i gesti simbolici che vuoi, ma la questione che scacci dalla porta tornerà dalla finestra, perché mai come in questa fase storica i destini di Europa e Africa sono destini intrecciati. Ci siamo arrivati in ritardo, certo, perché l’Europa doveva comprendere che il confine sensibile non era solo all’Est, che la rotta non era solo quella balcanica. L’Europa doveva comprendere che investire in Africa non significa solo aiutare l’Africa, ma aiutare l’Europa.

 

Se questo era, ed è, il nocciolo della questione, un anno fa l’Italia poteva tranquillamente dire e chiedere di fare di più, e avremmo avuto completamente ragione. Ma se ci fossimo limitati a chiedere di fare di più, insomma ad alzare la voce e minacciare, avremmo avuto nell’ultimo anno 120 mila migranti in più. Invece noi siamo andati oltre, semplicemente siamo andati in Africa. Ed essendo andati dall’altra parte del Mediterraneo, abbiamo impegnato l’Europa a seguirci. Siamo andati in Libia naturalmente, ma anche in Tunisia e nel Sahel. Tutto questo è riassunto nella firma del trattato italo-libico, per il quale c’è una coincidenza temporale straordinaria. Era il 3 febbraio 2017, Paolo Gentiloni e Fayez al Sarraj firmano l’accordo sui flussi migratori, e sul contrasto al terrorismo, e il 4 febbraio il vertice europeo a Malta recepisce come proprio l’accordo italo-libico. Insomma, da lì emerge l’evidenza di quanto coincidano interesse nazionale e interesse sovranazionale europeo. Proprio ciò che i populisti negano e rinnegano. I populisti vogliono che ci sia la contrapposizione: se c’è interesse nazionale, questo è direttamente confliggente con l’interesse sovranazionale ed europeo. Nella vicenda dell’Africa settentrionale si è dimostrato che nel momento in cui si è perseguito il nostro interesse nazionale abbiamo rafforzato anche la realtà europea.

 

L’accordo con la Libia funziona lungo tre direttrici. La prima è il controllo dei confini marittimi libici: le loro acque territoriali. Abbiamo fornito i mezzi alla guardia costiera e insieme all’Unione europea abbiamo formato il personale. Che in questi mesi ha operato con numeri inimmaginabili in passato: stiamo parlando di decine di migliaia di persone salvate e riportate in Libia. Secondo: il controllo dei confini meridionali. Abbiamo fatto l’accordo con le tribù del Sahel: i Tebu, e i Suleyman, che erano in guerra tra loro, hanno firmato la pace qui a Roma, al Viminale, e i Tuareg hanno fatto da testimoni e garanti. Abbiamo costituito una cabina di regia, con coordinamento italiano, tra i ministri dell’Interno di Italia, Libia, Ciad, Niger e Mali. Non ci vuole molto a capire che si tratta in gran parte di paesi francofoni e sui quali incombono forti interessi francesi. Eppure il rapporto è rimasto stabile: non si sono ridotti drasticamente solo gli sbarchi dalla Libia all’Italia ma anche i passaggi dal Sahel attraverso la Libia. Diversamente la Libia sarebbe implosa, cosa che non è avvenuta. Seconda direttrice: l’Italia ha ottenuto che le organizzazioni delle Nazioni Unite che si occupano di profughi, Oim e Unhcr, operassero direttamente in Libia. Questa è una differenza fondamentale con l’era Gheddafi. La Libia infatti non ha mai consentito queste presenze. Così come non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951: sono passati 67 anni, a Tripoli si sono succeduti regni, governi, dittature, regimi, abbiamo avuto momenti di tensione e di collaborazione, ma mai la Libia ha firmato. La realtà di oggi è che in questo momento sono presenti a Tripoli l’Organizzazione mondiale dell’immigrazione, le Nazioni Unite, le organizzazioni non governative italiane. Non è solo apparenza: nel momento in cui la guardia costiera libica fa un’operazione di salvataggio e recupero, e riporta i migranti sulle loro coste, trova sulla banchina personale internazionale con le pettorine azzurre, come quello presente in ogni paese occidentale, porti italiani compresi. Tutto questo fino a dieci mesi fa era inimmaginabile in Libia.

  

 

Inoltre l’Unhcr, cioè l’alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, ha concordato con il governo di Tripoli un protocollo per la costruzione in Libia di un centro sotto controllo Onu nel quale ospitare i migranti, verificando chi ha diritto e chi no alla protezione in Europa. Su questa strada bisogna continuare. Il modello degli hotspot laggiù non funziona. Non funziona perché anche in Africa c’è un’opinione pubblica come da noi. Non si tratta con gli africani se non si capiscono prima i loro sentimenti, e non si tiene conto poi della loro possibile evoluzione. Vale per la Libia, ma anche per Tunisia, Egitto, Marocco, Ciad. L’idea che ci sia un paese che da solo possa o voglia farsi carico di simili questioni non entusiasma le loro opinioni pubbliche. Faccio un esempio: nei giorni scorsi, a cavallo della querelle diplomatica italo-tunisina derivata dalla dichiarazione di Salvini sulla Tunisia “che esporta galeotti”, è cambiato il ministro dell’Interno di Tunisi. Ma quel ministro non è saltato per la polemica con l’Italia, ma perché gli si era rimproverato di non aver fatto il suo dovere nel salvare un gruppo di migranti da un naufragio. Esattamente la percezione delle cose opposta. In quei giorni, giovani tunisini hanno assaltato una caserma perché ritenevano che la Tunisia non avesse difeso gli interessi umanitari africani. Chiamiamola sensibilità, meglio “sentimento popolare”: chiunque tratti con loro deve sapere che esiste, ed è tanto più forte quanto più alta è la tensione.

 

A questo punto ci si potrà chiedere se le Nazioni Unite facciano già il loro lavoro in Libia, o se si tratti ancora di diplomazia scritta sulla sabbia. E’ legittimo. Allora è bene sapere che l’Unhcr ha finora selezionato 1.500 persone con diritto di asilo, e 300 di queste sono state accompagnate in Italia. Come? In aereo. Con voli militari, attraverso corridoi umanitari insieme alla Conferenza episcopale italiana. Il primo corridoio umanitario della storia tra Tripoli, Roma e l’Europa. Insomma: un altro tipo di migrazione, un altro tipo di accoglienza, è possibile. In Libia si è costruito un modello tra noi, loro e le Nazioni Unite. Chi ha diritto alla protezione internazionale viene da noi, e lo portano i nostri militari, non gli scafisti. Come è giusto che sia. Scappano da una guerra, e quindi sono assistiti da personale ufficiale, non in mano a trafficanti. Chi non ha diritto a partire viene rimandato dalla Libia al paese di origine con rimpatri volontari assistiti. Questo che cosa significa? Che per chi ha lo status di profugo è già possibile migrare dall’Africa all’Europa in modo civile, sicuro, probabilmente utile a loro e a noi in quanto si viene incanalati verso un diverso futuro, anche lavorativo. Certo: tutto questo va incrementato, migliorato; mi auguro che non venga abbandonato, in quanto dimostra ulteriormente che l’immigrazione non è solo emergenza, che l’emergenza può essere risolta e superata, e anche rapidamente se consideriamo qual era la situazione con l’Africa meno di due anni addietro.

 

Forse è normale chiedersi anche che fine fanno coloro che non hanno diritto all’asilo. E quindi dalla Libia riprendono la rotta verso il sud. I rimpatri volontari assistiti avvengono su base appunto volontaria, e chi aderisce ha diritto a un piccolo budget per rifarsi una vita. Bene, quanti sono stati in un anno questi rimpatri dalla Libia, secondo i dati della Organizzazione internazionale per la migrazione dell’Onu? Venticinquemila: non c’è nessun paese europeo che abbia effettuato tanti rimpatri in così pochi mesi. Dunque: se questo modello di gestione costruito in Libia funziona nella fragilità del tessuto libico, allora può funzionare in qualunque altro paese. E comincia a far comprendere che la partita non è su come l’Europa discute di questo, ma su come l’Europa sostiene questo progetto dall’altra parte del Mediterraneo.

 

E qui viene la terza direttrice. L’Italia ha firmato un accordo con 14 sindaci delle principali città libiche coinvolte nel traffico di esseri umani. L’assunto dell’accordo era semplicissimo: “Voi separate i vostri destini dal traffico di esseri umani, predisponete piani di sviluppo per le vostre comunità, e l’Italia e l’Europa ve li finanzia”. Questi progetti sono stati raccolti dall’ambasciata italiana, l’Italia ha messo 20 milioni di euro per le prime esigenze di carattere umanitario in queste città, l’Europa ha messo 50 milioni di euro. E’ un inizio, se vogliamo sostenere questo percorso per cui la cattiva moneta viene scacciata dalla buona moneta, se puntiamo a che il traffico di esseri umani sia scacciato dagli investimenti: non aiuti, ma investimenti. Però se vogliamo fare questo dobbiamo rafforzarlo; il punto cruciale è ovviamente avere più risorse. Attualmente la distanza tra gli investimenti che l’Europa ha fatto sulla rotta balcanica e quelli che ha fatto sull’Africa è siderale. Per la rotta Balcani stiamo parlando di tre più tre miliardi di euro; per l’Africa, di pochissime centinaia di milioni. Ecco, le ragioni del rapporto cruciale con l’Africa per sconfiggere l’illegalità, costruire la legalità, non perdere l’umanità.

 

Questo è il cuore della questione. E se lo è, l’intera discussione del cambiamento del trattato di Dublino – questione sì strategica e fondamentale – appare meno dirompente. Perché appunto la prima urgenza non è ristabilire l’equilibrio dentro l’Europa, ma tra Europa e Africa. Ma vediamo l’atteggiamento del governo nazionalpopulista italiano. Chiede di cambiare Dublino, perché ritiene il trattato troppo poco solidale nel rapporto con l’Italia. E’ vero? Sì, certo. Giova comunque ricordare che quel trattato fu firmato da un governo di centrodestra con primo ministro Silvio Berlusconi, e ministro dell’Interno Roberto Maroni. Ma non voglio impiccarmi al passato, voglio parlare di oggi. E dunque, nel novembre scorso il Parlamento europeo aveva fatto la sua parte. Dopo anni di paralisi e di blocchi su qualsiasi ipotesi di cambiare il trattato di Dublino, ha votato a larghissima maggioranza per la sua revisione e soprattutto per modificare il principio chiave del porto di primo arrivo: cioè la camicia di forza che ha sempre inchiodato l’Italia a tenere chiunque sbarcasse nel nostro territorio, con responsabilità oltre ogni limite. Benissimo. Perché allora il governo italiano non prende in mano la proposta del Parlamento europeo, utilizzandola alla propria maniera sul tavolo negoziale, sapendo che su questo punto c’è una resistenza dei singoli stati membri e del Consiglio europeo, ma che tutti sono contraddetti dall’Europarlamento? L’Italia non rafforzerebbe così la propria posizione? Perché non lo fa? Forse perché nel Parlamento europeo il Movimento 5 stelle ha votato contro la modifica dei regolamenti di Dublino? Forse perché la Lega si è astenuta? Queste sono le contraddizioni dei nazionalpopulisti. Il governo Lega-M5s ha l’interesse e chiede di cambiare Dublino. Il Parlamento europeo vota una risoluzione che va incontro all’interesse italiano. Ma a Strasburgo i Cinque stelle e la Lega, che sono nei gruppi nazionalpopulisti, sono stati costretti a votare contro o astenersi su ciò che adesso vogliono. E sono stati costretti perché i raggruppamenti nazionalpopulisti del Parlamento europeo sono contrari all’assunzione condivisa di responsabilità su chi arriva in Europa. Così come è contrarissimo alla mozione del Parlamento europeo, in quanto contiene la condivisione della responsabilità dei migranti, il gruppo di paesi di Visegrad: che però è il modello di riferimento dei nazionalpopulisti italiani. Tutto questo sta imprigionando il nostro governo in una gigantesca contraddizione: siamo il paese più esposto, il paese che chiede solidarietà, ma contemporaneamente in nome del nazionalismo abbiamo rapporti con chi si oppone ad ogni responsabilità condivisa. Il nazionalismo, giova ricordarlo, si definisce nella diversità e alterità con ogni altra identità nazionale. Così i primi a negarci ciò che chiediamo sono quelli ai quali vogliamo ispirarci ed essere alleati, Ungheria e Austria in testa. Ecco, l’attuale maggioranza si trova prigioniera della sua ideologia. Una contraddizione-capolavoro.

 

 

 

Tutto questo è stato reso evidentissimo al vertice di Bruxelles. L’Italia è andata lì per battere i pugni sul tavolo. L’Europa ha rischiato l’implosione. L’Europa ha rischiato di rompersi l’osso del collo. Alla fine, un accordo piccolo piccolo, e molto fragile. Con tre mele avvelenate. La prima: si prende atto della richiesta del blocco di Visegrad che il trattato di Dublino può essere cambiato all’unanimità quando prima era possibile farlo a maggioranza qualificata. Era già difficile cambiarlo prima, adesso aumenta e si rafforza la posizione di ogni singolo paese del gruppo di Visegrad, il quale avrà dunque le chiavi per bloccare qualunque cambiamento in direzione di un comune principio di solidarietà. Vedremo al prossimo Consiglio di ottobre. Ma la sensazione molto forte è che si sia reso praticamente impossibile cambiare il trattato che per l’Italia costituisce una vera e propria camicia di Nesso. La seconda è che tutto ciò che riguarda i cosiddetti movimenti primari, e cioè gli arrivi in Europa, venga affidato a strumenti interamente da verificare, come le cosiddette piattaforme regionali extraeuropee. Oltre il titolo, non si riesce ad andare. Così come è un titolo quello dei centri controllati in Europa. Ma la cosa più delicata è che tutto questo, tutto ciò che riguarda i cosiddetti movimenti primari, diventa volontario. Giova qui ricordare che negli anni scorsi il sistema delle relocation, che pure era obbligatorio, non ha portato tutti i paesi membri a rispettare quello che era previsto dagli accordi europei. E’ difficile adesso immaginare come sia possibile convincere attraverso la “volontarietà” coloro che sono sfuggiti alla “obbligatorietà”. E’ chiaro che nel momento in cui sulla immigrazione si sceglie la via dell’Europa dei volenterosi si rischia di rendere ancora più evidente l’isolamento di coloro che sono in prima linea. Ma, e qui sta la terza mela avvelenata, mentre per i principi di solidarietà nei movimenti primari viene introdotta la volontarietà, per i rimpatri nei paesi di primo arrivo (l’Italia) rimane, senza essere nemmeno scalfita di un millimetro, l’obbligatorietà. Non sembra uno scambio vantaggioso. Da un lato, quello che ci interessa di più diventa volontario, dall’altro lato quello che ci preoccupa di più rimane obbligatorio. L’Italia si è trovata di fronte ad una montagna difficile da scalare. La rottura dell’isolamento è passata attraversi “l’odiatissima Francia”. Il muro contro il quale si è sbattuto è quello dell’“amatissimo gruppo di Visegrad”. Se qualcuno avesse avuto dei dubbi, Bruxelles ha confermato tutta quanta la fragilità di una visione ipernazionalista. L’“internazionale dei nazionalpopulisti” è una contraddizione in termini.

 

Il paradosso del nazionalpopulismo italiano. Se ogni nazione alza il proprio confine, quel confine diventa un elemento identitario, ma anche insuperabile nella pratica, di assoluta incomunicabilità. I problemi veri, più che con la Francia,
li avremo con l’Austria e con il blocco di Visegrad

Nel mondo attuale i rapporti tra gli stati, anche tra i paesi che vantano un comune sentire, saranno sempre più segnati da due elementi: cooperazione e competizione. In un mondo nemmeno più multipolare, ma a-polare, nel quale cioè non ci sono più grandi potenze esclusive, in un mondo che non tornerà mai più indietro verso il bipolarismo, bisognerà abituarsi al fatto che il massimo di collaborazione convivrà sempre con una evidente competizione. Il punto, in questi rapporti di collaborazione-competizione, è di avere frecce nell’arco. Dimostrare di avere una visione e una strategia. Faccio un esempio. Emmanuel Macron, appena eletto, convocò a Parigi un vertice sulla Libia invitando Sarraj e il suo “nemico” Khalifa Haftar, capo militare dell’est del paese. I giornali italiani scrissero: “La Francia toglie il dossier libico all’Italia”. E certo i francesi hanno grandi interessi, strategici, economici e militari, in nord Africa e nel Sahel. Ma poi che cosa avvenne? Il giorno dopo Sarraj tornando da Parigi è venuto a Roma. E non certo in visita di cortesia: per la prima volta ha firmato un accordo di collaborazione militare tra la nostra Marina e la loro. Per la prima volta la Libia ha accettato che navi militari di un altro paese – in questo caso navi militari del paese dell’ex dominio coloniale – entrassero nelle sue acque territoriali e operassero dal porto di Tripoli. Poi siamo andati a Bengasi ad incontrare Haftar e abbiamo costruito una solida relazione con lui: L’abbiamo messa al servizio della stabilizzazione della Libia, che rimane insieme la più grande necessità e la più grande incognita. Ma forse oggi un pochino meno incognita. Il punto qual è? Che siamo partiti da un’iniziativa francese e l’abbiamo accompagnata, e direi fatta evolvere, con una iniziativa italiana. Tutto ciò ha comportato che qualche tempo dopo, il 28 agosto 2017, si facesse un vertice a Parigi con i paesi principali del nord Africa e Italia, Spagna, Germania: nel documento conclusivo di quel vertice si riconosceva, senza ombre, che il modello da seguire è la politica italiana verso la Libia, l’accordo italo-libico. Ovvero, quel vertice europeo a Parigi faceva proprio il punto di vista dell’Italia. Questa, e non battere i pugni sul tavolo, è il cuore delle politiche di collaborazione-competizione.

   

Il compito di un paese, ancora più in una materia delicata come l’immigrazione e i rapporti con l’Africa, non può essere solo di segnalare la propria superiorità rispetto agli altri, ma tra due ipotesi differenti sapere indicare una soluzione strategica dentro la quale anche gli altri si riconoscano. Al contrario, se si fa politica con un susseguirsi di atti simbolici, il primo rischio è che ad atto simbolico qualcun altro contrapponga un atto simbolico opposto, magari più forte. Il secondo, più che un rischio è un dato. L’atto simbolico, e la somma di diversi atti simbolici, non sono una strategia.