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Il futuro del congresso Pd è ancora legato al vecchio patto di sindacato

David Allegranti

Renziani, orfiniani e gli altri. Contro Zingaretti prende forma una triangolazione tra i sostenitori dei candidati. Ipotesi 3 marzo

Roma. Senza una candidatura forte, di quelle che sparigliano, l’esito del congresso del Pd, che potrebbe svolgersi il 3 marzo, rischia di essere imprevedibile (determinante sarà l’affluenza, che al momento è il dato forse più imponderabile di tutti). Molte le candidature: Marco Minniti, Nicola Zingaretti, Matteo Richetti, forse pure Maurizio Martina. Lo statuto del Pd scremerà gli sfidanti e il patto di sindacato dei Democratici che ha guidato il partito finora cercherà di controllare il duello, ordinarlo, prevedere il finale del film, cercando di far scegliere il segretario non al “popolo delle primarie” ma agli eletti dell’assemblea, come prevedono le regole, qualora nessuno degli aspiranti segretari raggiungerà il 50 per cento dei voti. Il rischio è concreto; determinante potrebbe rivelarsi l’impegno di Matteo Orfini, che nell’ultimo mese ha lavorato per creare il “terzo polo”. Il presidente del Pd non sceglierà né Minniti né Zingaretti e punterà tutto su Martina. Se Martina però non si candidasse, allora la scelta ricadrebbe su un’altra candidatura (magari una donna, ma non Chiara Gribaudo, specificano gli orfiniani). Il “terzo polo” potrebbe dunque mandare Minniti sotto il 50 per cento e c’è chi ritiene che possa anche stare sopra Zingaretti. I voti di Orfini comunque sarebbero determinanti in assemblea se il suo candidato arrivasse terzo.

  

La macchina elettorale di Minniti nel frattempo è al lavoro. A capo c’è l’immancabile Achille Passoni, ex senatore del Pd, marito dell’ex ministra Valeria Fedeli, per anni responsabile organizzazione della Cgil, uomo d’ordine del sindacato vicino alla sinistra. Insieme a Passoni (che lo scorso fine settimana era seduto in platea all’incontro dei renziani a Salsomaggiore a prendere appunti) ci sono anche, ma più defilati, Andrea Manciulli, ex segretario del Pd toscano ed parlamentare, oggi al lavoro nel settore privato, e Nicola Latorre, altro ex senatore. Al lavoro per la candidatura di Minniti nel Pd ci sono poi Andrea Romano, Lorenzo Guerini, Ivan Scalfarotto, Matteo Ricci, autore del manifesto dei sindaci firmato anche da Giorgio Gori e Dario Nardella. Secondo Romano, il lavoro di Minniti seguirà quello di Renzi e ne rappresenta la sua anima riformista. “Il cambiamento profondo (e forse irreversibile) avvenuto in questi anni nella cultura condivisa dalla comunità del Pd – dice Romano in un intervento pubblicato da Libertà Uguale – non dovrebbe essere confuso con l’auspicio di alcuni dirigenti di chiudere la parentesi dell’egemonia riformista per tornare ad una fantasiosa ‘età dell’oro’ della sinistra italiana. Un auspicio legittimo per una battaglia politica altrettanto legittima, ma che tuttavia non può essere attribuito ad un Pd che – nel suo essere comunità politica e non solo somma di dirigenti – è e rimane la casa dei riformisti italiani e lo strumento principale (se non unico) sia per la difesa dell’Italia dal destino di isolamento e declino a cui vorrebbero condannarla i sovranisti sia per la traduzione concreta di quei valori di libertà e progresso che ci identificano”. Al fianco di Minniti non ci sarà invece Paolo Gentiloni, una scelta che ha amareggiato non poco i renziani. Stefano Ceccanti non capisce il senso di questo appoggio, “non solo per le evidenti differenze complessive di cultura politica, ma specificamente per l’importanza che Zingaretti attribuisce alla rottura di quella grande regolarità positiva delle democrazie parlamentari e al ritorno a un’anomalia negativa italiana del primo sistema dei partiti”. Un esito, peraltro, “del tutto contraddittorio col metodo che si è dato il Pd delle primarie aperte che convocano gli elettori perché non si tratta solo di scegliere un segretario che apre e chiude le riunioni. Peraltro con quella regressione sarebbe anche abusivo il nome stesso di primarie”. E Graziano Delrio invece? Il capogruppo del Pd alla Camera potrebbe convergere su Martina. “Vediamo i contenuti. E se aggrega i 40enni sui contenuti”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.