La politica d'odio

Redazione

Uno psichiatra spiega che cosa c’entra la retorica populista con la violenza. E’ colpa del cervello

Roma. C’è una relazione tra i discorsi politici – aggressivi, populisti, complottisti – e gli atti violenti, i reati d’odio che compaiono nelle cronache di mezzo mondo? Ce lo domandiamo da tempo, ma non è così facile da dimostrare. Ieri Richard A. Friedman, docente di Psichiatria clinica alla Weill Cornell Medicine, la scuola medica della Cornell University, uno dei più famosi psichiatri d’America e divulgatore su autorevoli testate, ha scritto un lungo articolo sul New York Times per spiegare che cosa succede nella nostra testa quando qualcuno ci incita al sospetto, all’odio. “E’ difficile dimostrare se un discorso incendiario possa essere causa diretta di un atto violento. Ma gli esseri umani sono creature sociali – compresi, e forse soprattutto, gli squilibrati e i disadattati – facilmente influenzabili dalla rabbia. E’ questa la spiegazione al fatto che solo nelle ultime due settimane abbiamo assistito all’orribile massacro di 11 ebrei in una sinagoga di Pittsburgh, con l’uomo arrestato descritto come un fanatico antisemita, e al tentato attacco bomba ai danni di prominenti critici di Trump da parte di un accanito sostenitore di Trump?”. Non c’è bisogno di essere uno psichiatra, prosegue Friedman, per capire che l’odio e l’allarmismo che fanno parte della retorica di Trump possono suggerire ad alcune persone di passare all’azione. Ma la psicologia e la neuroscienza possono darci alcuni spunti importanti sul potere delle parole pronunciate da personalità influenti.

 

“Sappiamo che l’esposizione ripetuta a discorsi che incitano all’odio può aumentare i pregiudizi”, come è stato confermato, dice Friedman, da una serie di studi effettuati in Polonia lo scorso anno. Quella stessa esposizione ripetuta “può anche desensibilizzare le persone ad alcune aggressioni verbali, perché in un certo senso normalizza quello che di solito è considerato un comportamento socialmente condannabile. I politici come Trump alimentano la rabbia e la paura nei loro sostenitori”. Sono due emozioni che “provocano ondate di ormoni dello stress, come il cortisolo e la norepinefrina, e impegnano l’amigdala, il centro del cervello che rileva le minacce. Per esempio, uno studio incentrato sull’elaborazione del pericolo ha dimostrato che un linguaggio minaccioso può attivare direttamente l’amigdala. Ciò rende difficile per le persone gestire le proprie emozioni e riflettere prima di agire. Trump è riuscito a convincere i suoi sostenitori che l’America sta affrontando una minaccia esistenziale – per esempio con la carovana di migranti e alcune notizie ‘false, false e disgustose’”.

 

Per esempio, scrive Friedman, “Robert Bowers ha accusato gli ebrei di aver aiutato la carovana di migranti dal centroamerica: ‘Non posso stare a guardare mentre la mia gente viene massacrata’, ha scritto online prima della furia omicida. E Cesar Sayoc Jr., accusato di aver spedito le bombe alla Cnn, ha fatto eco al presidente in un tweet: ‘Altre bugie, il lavoro di propaganda sta fallendo, spazzatura della Cnn’”. Ma secondo Friedman non serve essere fuori di testa per arrivare a compiere atti di violenza di questo tipo. “Susan Fiske, psicologa di Princeton, e i suoi colleghi, hanno dimostrato che la sfiducia nei confronti di un gruppo esterno è legata alla rabbia e all’istinto alla violenza. Questo è particolarmente vero quando una società affronta difficoltà economiche e le persone sono portate a considerare gli altri come rivali nel mondo del lavoro. Mina Cikara, psicologa di Harvard e coautrice dello studio, mi ha detto che ‘quando un gruppo di persone viene messo sulla difensiva, viene fatto sentire minacciato, inizia a credere che tutto, compresa la violenza, possa essere giustificato”. Secondo lo studio di Cikara quando un gruppo si sente in pericolo è più portato a credere che i membri di un altro gruppo siano “meno umani”, e quindi prova meno empatia per loro – è questo che scatena la violenza, dice Friedman.

 

“In uno studio del 2011 il dott. Fiske e un collega hanno esaminato la ‘cognizione sociale’ – la capacità di mettersi nei panni di qualcun altro e riconoscere ‘l’altro come un essere umano capace di un trattamento morale’. I soggetti dello studio sono risultati essere così poco empatici nei confronti di tossicodipendenti e senzatetto che hanno trovato difficile immaginare ciò che quelle persone pensavano o sentivano”. Grazie alle immagini del cervello ottenute tramite risonanza magnetica, i ricercatori hanno dimostrato che “i gruppi disumanizzati non riuscivano ad attivare regioni cerebrali implicate nella normale cognizione sociale, mentre attivavano il lobo dell’insula, una regione che attiva il sentimento di disgusto”.

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