Il 28 ottobre Jair Bolsonaro ha vinto il secondo turno delle presidenziali in Brasile con il 55 per cento delle preferenze (foto LaPresse)

Se piace il caudillo

Maurizio Stefanini

Riecco il leader, politico e militare insieme, in stile latinoamericano. Ha funzionato a sinistra con Chávez, va forte a destra con Bolsonaro

Un ufficiale dei paracadutisti – o che si presenta come tale – è cacciato dall’esercito per manifesto golpismo. Si dà alla politica. Si candida alla presidenza – nel mezzo di una grave crisi economica e di una buriana di scandali che ha portato a un impeachment e alla detenzione di un ex presidente, già mito storico della sinistra latinoamericana. A sorpresa, l’ex militare cresce nei sondaggi, cavalcando l’antipolitica a colpi di insulti e minacce. Quando però vede che può effettivamente vincere inizia a smussare certi toni, per dare di sé una immagine più responsabile. Gli altri partiti avvertono che non bisogna fidarsi, ma non riescono a mettersi d’accordo tra di loro, anche perché l’ondata di giustizialismo che ha investito il paese è stata veramente devastante. In più la politica è stata ormai cambiata da un nuovo uso dei media di cui il “golpista” è maestro. Insomma, il “golpista” viene eletto presidente. Che succederà adesso?

 

Un ufficiale dei paracadutisti è cacciato dall’esercito per golpe, tenta la scalata politica e diventa presidente. Non pare il Brasile?

In realtà, lo sappiamo già. Acclamato da molti a livello mondiale come creatore di un nuovo modello di politica, popolarissimo in patria, attivissimo sul piano internazionale, sempre in bilico tra pulsioni autoritarie e un rispetto formale della democrazia, in realtà viziato da mille forme di manipolazione, iI “golpista” governerà 14 anni, per poi morire di un male improvviso. Effetto anche delle sue scelte, il paese intanto è sprofondato in un caos economico che il suo incapace erede affronta passando dall’autoritarismo larvato a quello dichiarato. Centinaia di cittadini sono brutalmente uccisi in piazza dalla repressione. Altre centinaia di migliaia fuggono all’estero.

 

No: non stavamo parlando di quello che sta succedendo e potrà succedere in Brasile, con l’elezione a presidente di Jair Bolsonaro. Stavamo parlando di quello che è già successo in Venezuela con l’elezione a presidente di Hugo Chávez. E rivediamo dunque le analogie, ma anche le differenze. Sì, tutti e due erano stati militari di professione, provenienti dall’Accademia: Hugo Chávez arrivato a tenente colonnello; Jair Bolsonaro a capitano. Sì, tutti e due hanno avuto l’immagine del “parà”, che da sempre fa guerriero che più guerriero non si può: ma in realtà bisognerebbe un attimo ridimensionare. Chávez era infatti del Genio trasmissioni, e alla testa di un battaglione di paracadutisti ci era arrivato avanzando con la carriera. Si può infatti chiosare che è stato un portento della comunicazione, ma come condottiero sul campo portò al macello i 460 parà cui ordinò l’assalto del palazzo presidenziale senza neanche spiegare loro che stavano facendo un colpo di stato. Il presidente infatti scampò, e Chávez si arrese in diretta tv anche a nome dei suoi compari che invece nel resto del paese i loro obiettivi li avevano raggiunti: però bucò lo schermo, e divenne un divo. Bolsonaro era invece paracadutista doc, ma non della fanteria, bensì dell’artiglieria. Comunque, né Chávez né Bolsonaro sono stati formati come assaltatori o incursori.

 

Destra e sinistra, Spagna, Venezuela, Brasile, Cile. Il caudillismo è un fenomeno ispanico, ma non solo: lo era anche Garibaldi

Un po’ diversa, invece, è la dimensione del “golpismo”. Bolsonaro finì per un paio di settimane in galera militare per aver scritto su una rivista un articolo in cui accusava i politici di abbassare gli stipendi agli uomini in divisa per punirli dei 21 anni di regime militare appena finito. Poi andò di nuovo sotto processo dopo aver minacciato di mettere bombe nei gabinetti delle più importanti caserme del paese, fu congedato, e si diede alla politica. Per due anni consigliere comunale a Rio de Janeiro, e poi per 17 anni deputato nazionale. Da allora ha più volte manifestato nostalgie per il regime militare, ha detto a una collega deputata che non meritava neanche di essere stuprata, ha augurato alla presidentessa Dilma Rousseff di morire per infarto o per cancro, ha detto cose politicamente scorrettissime su negri, gay e anche donne: anche se a casa comanda la sua ultima moglie, che è pure di padre nero. Però più che parlare non ha mai fatto, e anzi la violenza fisica l’ha subita, quando lo hanno accoltellato. Chávez, invece, un colpo di stato lo aveva tentato sul serio, con un saldo di 20 morti e varie decine di feriti. “Meno morti che in qualunque fine settimana a Caracas”, disse per giustificarsi. Una battuta che surclassa in cattivo gusto tutto il peggio che Bolsonaro possa aver mai prodotto. E anche la promessa di Chávez agli avversari di “friggere e loro teste in padella come cipolle” è abbastanza più truce della generica promessa scappata a Bolsonaro nell’ultima campagna elettorale di mandare i suoi avversari “all’estero o in galera”.

 

Ci sono poi altre sfumature, ovviamente. Carlos Andrés Pérez in Venezuela cumulò quel ruolo di presidente rimosso da impeachment e presidente finito agli arresti che in Brasile è stato equamente ripartito tra Dilma Rousseff e Lula. Le proteste in Brasile contro Dilma, il “Vem pra rua”, non hanno avuto il bilancio di sangue del Caracazo, la rivolta della capitale venezuelana contro il pacchetto di austerity di Carlos Andrés Pérez. Bolsonaro si è poi impegnato per iscritto a difendere la Costituzione: in marcato contrasto con quando Chávez giurò “su una Costituzione moribonda”, per poi metterla subito in mora. In compenso l’uso che Chávez seppe fare della tv e il ruolo dei cellulari come strumento di mobilitazione dei seguaci sono ancora qualcosa di limitato, rispetto a quel che è stato WhatsApp nel fenomeno Bolsonaro. Più in generale il Brasile non è il Venezuela: più grande, più diversificato nell’economia, con una società più articolata. E c’è soprattutto il diverso sbocco politico. La crisi della sinistra moderata venezuelana – quella Acción Democratica icona del progressismo socialdemocratico latino-americano anni 60 e 70 – portò con Chávez a una fuoriuscita verso una sinistra più radicale, che con lo slogan “Socialismo del XXI secolo” a un certo punto ebbe addirittura l’ambizione di raccogliere il testimone della dissolta Unione Sovietica. La crisi della sinistra moderata brasiliana – quel Partido dos Trabalhadores icona del progressismo socialdemocratico latinoamericano di inizio XXI secolo – ha portato invece con Bolsonaro a una fuoriuscita a destra. Che la temperie mondiale porta a confondere con il sovranismo oggi di gran moda, ma che in effetti programmi alla mano assomiglia forse più al modello liberista della reaganomics e del thatcherismo.

 

Nella gran fretta di paragonare Bolsonaro ai vari Trump e Duterte, ci si dimentica quanto assomigli ai modelli latinoamericani

Però, appunto, nella gran fretta di voler inquadrare Bolsonaro con i vari Trump, Salvini o Duterte, e con la tentazione di sottolineare invece la sua somiglianza con i grandi eroi liberisti degli anni 80, ci si dimentica di quanto assomigli a Chávez. Cioè, un leader carismatico, che stabilisce un rapporto diretto col popolo, e che soprattutto può esibire una divisa, ancorché in modo simbolico. E qua andiamo oltre al profilo del leader populista di oggi, per tornare alla storia stessa dell’America latina profonda. “Biografia di un continente” era il sottotitolo che Ludovico Incisa di Camerana aveva apposto al suo libro del 1994 “I caudillos”: un piccolo classico di storiografia latinoamericana in italiano. Diplomatico, storico, anche sottosegretario agli Esteri all’epoca del governo Dini, ambasciatore a Caracas e a Buenos Aires, appartenente a una famiglia di antica nobiltà sabauda, scomparso nel 2013, Incisa spiegava infatti che era stato il caudillo il vero protagonista della storia latinoamericana. “Esiste un albero genealogico dell’America latina in cui appaiono insieme, nonostante le molte differenze, il conquistador Pizarro e il barbudo Castro, i grandi ‘padri della patria’ (Bolívar. Miranda, O’Higgins, Belgrano, San Martín, Iturbide) e i demiurghi rivoluzionari che cercano d’infiammare le plebi del continente, da Pancho Villa a Emiliano Zapata, da Che Guevara a Abimael Guzmán, leader di Sendero Luminoso”, spiegava il risvolto di copertina. “Generosi o crudeli, intelligenti o rozzi, i caudillos sono al tempo stesso autoritari e egualitari, popolari e populisti. La loro patria è il popolo armato di cui hanno preso la testa”.

 

“Lo stato è l’esercito e l’esercito nasce prima della nazione: l’esercito è il padre della patria”, è il teorema con cui Incisa di Camerana legava la storia dell’America latina alla figura del caudillo: ultima manifestazione di un modello di leader militare e politico al tempo stesso che risaliva addirittura ai tempi dell’antica Roma. Come storico rigoroso, Incisa di Camerana tendeva in realtà a delimitare la definizione. Ricordando l’etimologia nel latino caput o nell’arabo cahdi, insisteva dunque che “il caudillo può non essere democratico, può essere un dittatore, ma il fenomeno, basato sulla lealtà reciproca anziché sulla disciplina, il caudillismo, è democratico”. Per questo distingueva dal prototipo del caudillo latinoamericano quello del caudillo spagnolo, che non solo nella figura del generalissimo Franco afferma la sua autorità non sul carisma più o meno accettato ma sulla gerarchia imposta. Anche i caudillos brasiliani sarebbero stati vicini al modello spagnolo, salvo quelli venuti dalla regione di confine del Rio grande do Sul. Tra parentesi: il Rio Grande do Sul è la regione che forma anche Giuseppe Garibaldi, da cui il modello è importato in Italia. Ma Garibaldi è un particolare tipo di caudillo, con capacità militari e senza brama di potere: all’esatto opposto di suoi più tardi epigoni come Gabriele D’Annunzio o Benito Mussolini.

 

Un caudillo è un leader al tempo stesso civile e militare; un caudillo, tuttavia, non deve essere per forza un dittatore

Al contempo però Incisa di Camerana era anche uno scrittore vigoroso e avvincente, e con felice incoerenza nella sua epica cavalcata metteva dentro tutti assieme, pur che offrissero spunto al colore: Caudillos, Conquistadores, Libertadores, Caciques, e altre varianti ancora. La copertina del libro offriva infatti una foto di Fidel Castro in visita nel 1971 al Cile di Allende sull’attenti accanto al presidente e a un generale locale destinato a diventare famoso un paio di anni dopo, di nome Augusto Pinochet. Nel senso stretto definito da Incisa, caudillo sarebbe stato solo Fidel. Ma quel selfie ante litteram tra il guerrigliero arrivato al potere, il generale di carriera golpista e il grande borghese capopopolo era troppo avvincente per non essere sfruttato.

 

Del problema, l’autore di queste note parlò proprio con Incisa di Camerana, in una intervista del 1997. E Incisa di Camera insistette sul concetto che il caudillo per essere tale doveva essere “un leader allo stesso tempo civile e militare”. “Dittatore non significa automaticamente caudillo”. La conclusione era che con l’evoluzione dell’America latina degli ultimi anni e il ritorno dei militari nelle caserme “in America latina non si può più parlare di caudillos”. “Secondo lei, non ce ne è più proprio nessuno”, insistetti. “L’ultimo, ormai, è Fidel Castro”. Ahimè, Chávez andò al potere due anni dopo. Della cosa riparlammo a lungo nel 2005, quando ci capitò di fare assieme un viaggio tra Perù e Ecuador. Pur non essendo assolutamente un uomo di sinistra, insisteva nel considerare Chávez un sorta di riformista. Il suo approccio redistributivo, diceva, “rende i poveri consumatori”, e quindi avrebbe favorito lo sviluppo. Che dire? E’ vero che certi sviluppi negativi del modello chavista sono stati più evidenti in seguito. Ho sempre pensato che probabilmente da ambasciatore a Caracas Incisa doveva aver maturato una avversione tale per i politicanti corrotti della democrazia pre-chavista, da indurlo a guardare al colonnello con un occhio di troppo di indulgenza. Soprattutto, però, nel suo libro sui Caudillos è evidente una riabilitazione di Perón, visto a sua volta come l’unico tipo di riformista che l’Argentina poteva produrre.

 

Ma a proposito di Argentina e peronismo, una importante analisi sul fenomeno caudillo l’ha fatta anche Torcuato Di Tella: un sociologo figlio di un grande intellettuale e imprenditore di origine italiana, suo omonimo. A Torcuato Di Tella padre è intitolata una Università che è una sorta di Bocconi argentina. Mentre suo fratello Guido era stato ministro degli Esteri per Menem, lui fu prima con Néstor Kirchner ministro della Cultura; poi con Cristina ambasciatore in Italia fino alla morte, nel 2016. Un paio di volte, ci capitò di fare da relatori a convegni assieme. Ho ascoltato dunque con attenzione dalla sua stessa voce, oltre a leggerla nei suoi libri, quella sua analisi che contrapponeva da un lato la socialdemocrazia europea: dove una classe operaia matura seleziona da sé i propri leader, in particolare attraverso il cursus honorum sindacale o del funzionariato di partito. Dall’altro il populismo latinoamericano: in cui non c’è classe operaia ma una plebe di campagnoli che un recente inurbamento ha privato dei “tre padri” tradizionali cui erano abituati a rivolgersi per risolvere i propri problemi nell’ambito di un rapporto referenziale. Cioè, il padre-patriarca “biologico” della famiglia allargata; il notabile-proprietario terriero-datore di lavoro; il sacerdote. A quel punto, si cercano dunque un “quarto padre”: patriarca, datore di lavoro e autorità sacrale allo stesso tempo. E questo è tipicamente il militare, proprio per il carisma formale della divisa. Se come Fidel Castro, Daniel Ortega, Pinochet o ai loro tempi i libertadores Bolívar o San Martín questo “quarto padre” ha anche l’immagine di leader militare vittorioso, anche solo di un colpo di Stato, meglio. Ma Perón tecnicamente non aveva mai combattuto guerre, e Chávez ogni volta che ha dovuto affrontare una prova militare di persona è stato sconfitto. Ma non importa: basta la divisa. O basta averla avuta.

 

Ha funzionato di nuovo a sinistra con Chávez. Funziona di nuovo ora anche a destra: e proprio a partire da quel Brasile dove la sinistra era riuscita a proporre con l’operaio presidente Lula un modello di leader venuto dal basso da vecchia socialdemocrazia nordica.

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