Matteo Salvini (foto LaPresse)

Paradossi sovranisti

Promemoria per i nazionalisti: la globalizzazione include gli stati, non vi si contrappone

Professor Sabino Cassese, hanno ragione i sovranisti a riportare in primo piano lo stato?

Terreno scivoloso, pieno di ideologismi. Vada cauto. Pensi a Bannon, che promuove una rete globale di sovranisti-nazionalisti e non si rende conto della contraddizione. Il potere può dare un po’ di euforia, e l’euforia far perdere il senso delle proporzioni, come all’esimio ministro dell’Interno italiano, che ha dichiarato alla Stampa il 9 ottobre: “Abbiamo dalla nostra 60 milioni di italiani”. Immagina file di bambini e fanciulle inneggianti a Salvini?

 

Ma non ha l’impressione che riprendano piede gli “egoismi nazionali”? Che siamo in anni di risorgenti nazionalismi? La Brexit e  lo slogan di Trump non sono all’insegna di un ritorno allo stato? Che cosa implica tutto questo? La globalizzazione esce di scena e ritorna protagonista lo stato?

Cerchiamo d’esser concreti, per evitare di rimanere anche noi prigionieri degli ideologismi o degli schematismi. Pensi all’atteggiamento di Trump sull’Iran. Ha ripreso a infliggere sanzioni. Ma non solo all’Iran, anche a chi commercia con l’Iran. E con effetti indiretti anche su terzi. Dunque, c’è un’azione unilaterale che produce effetti multilaterali, di cui gli altri stati debbono tener conto, coordinandosi tra di loro. Pensi soltanto agli effetti sull’Europa dei limiti alle importazioni di acciaio cinese negli Stati Uniti, che faranno riversare l’acciaio cinese in Europa. Pensa che si potrebbe rispondere con barriere nazionali, oppure che la risposta debba comportare accordi stretti tra i paesi europei? Come vede, non si esce dal paradigma delle interdipendenze, che poi conducono alla globalizzazione, in tutte le sue molte forme.

 

Ma l’Unione europea è a sua volta divisa.

Molto meno di quel che sembra. Consideri che ciascuna nazione avrebbe pochissima voce, da sola, in un teatro mondiale sempre più stretto, dove vi sono protagonisti delle dimensioni della Cina, dell’India, degli Stati Uniti, della Russia. Mettersi d’accordo sul piano regionale (qui la regione è l’Europa), conviene, se non si vuole rimanere soli e afoni.

 

Vuol dire che le spinte verso la formazione di poteri pubblici oltre gli stati sono sempre vive, nonostante il sovranismo crescente?

L’esempio migliore è proprio quello italiano. Il nostro governo chiude le frontiere (sovranismo), ma chiede a gran voce una disciplina europea delle rilocalizzazioni (che è il contrario del sovranismo). Non le sembra un perfetto esempio di contraddizione dei nazionalisti sfegatati? E, quindi, un argomento a favore di un atteggiamento più critico, meno ideologizzante.

 

Quale è l’approccio che suggerisce.

Di non scegliere un solo approccio. La globalizzazione è, nello stesso tempo, una e trina. Per un verso, è la forza dell’economia che si impone agli stati. Di qui economia globalizzata contro politica e stati nazionalisti. Per altro verso, è il prodotto della necessità per gli stati di mettersi d’accordo per affrontare problemi che vanno al di là delle loro forze (pensi all’uso del mare al riscaldamento terrestre, al terrorismo globale). Infine, rappresenta una tendenza che preesiste agli stati, alla quale gli stati, nel momento della loro maggiore forza, si sono opposti, frenandola, ma che da trent’anni ha ripreso forza. Insomma, la globalizzazione include gli stati, non vi si contrappone. Nello stesso tempo, li frena, li limita, li obbliga a seguire procedure, a rispettare principi, a sottoporsi a regole globali.

 

Vuol dire, quindi, che l’opposizione globalizzazione-sovranismo è una falsa contrapposizione?

Proprio così. Uno di quei miti che agitano gli animi semplici, che si fanno prendere dalle false alternative perché vivono di contrapposizioni, bianco-nero, amico-nemico, stato-globalizzazione. Angelo Panebianco, in un acuto editoriale del Corriere della Sera del 24 settembre scorso, ha ricordato la perdurante vitalità degli stati, e Michael Billig, nel libro “Nazionalismo banale”, edito di recente da Rubbettino in Italia, ha motivato la conclusione del persistere del nazionalismo, con la riproduzione quotidiana dei suoi simboli e rituali di cui non ci rendiamo conto, ma che fanno tuttavia parte della nostra vita. Si potrebbe dire lo stesso della globalizzazione.

 

In che senso?

Nel senso che diamo per scontato di poter comprare prodotti tessili cinesi a buon mercato, o frutti esotici africani, o di poter combattere epidemie globali (i passeggeri aerei che si trasferiscono da un paese all’altro sono un miliardo e 500 milioni all’anno). Insomma, viviamo sempre di più un’epoca di multiple identità, di molteplici appartenenze. E ci conviene.