Edgar Degas, “La toilette”, 1890-95 (collezione privata)

Siamo tutti piccoli ladri di frivolezze in un bagno d'albergo

Michele Masneri

Dalla pensione modesta all’hotel stellato, l’immancabile presenza dei flaconcini di shampoo e bagnoschiuma. Ora è lotta agli sprechi: comincerà il colosso Marriott con contenitori più ecologici e fissati alle pareti

Non solo l’Italia forse uscirà dall’euro: la notizia tragica è che non troveremo più in albergo le bottigliette di bagnoschiuma e shampoo. Le amenities, quelle boccette che freneticamente tutti abbiamo trafugato per anni negli alberghi, dall’ultima pensione Mariuccia al sei stelle di lusso bestiale, paiono destinate all’oblio, per lasciar posto a più ecologici contenitori, bottiglioni ricaricabili inchiavardati al muro, ecologici, impossibili da infilare in borsa. Ci mancava solo questo. Lo ha scritto il Wall Street Journal nelle settimane scorse citando Marriott, colosso degli alberghi di medio-alto lusso, che dovrebbe cominciare ad abolire i flaconcini in millecinquecento dei suoi hotel entro gennaio. Una micidiale scadenza, che probabilmente verrà seguita da altre catene. Adesso Marriott ce lo conferma, una gentile signorina ammette che sì, già 450 albergoni saranno privati delle incommensurabili boccette, con l’obiettivo di arrivare a 1.500 entro la fine dell’anno. L’obiettivo, dicono alla catena alberghiera, è di ridurre gli sprechi del 45 per cento entro il 2025: ma se ne andrà anche un mondo, quello delle boccette trafugate in ogni dove, che si prendevano anche solo per il gusto di.

 

L’obiettivo è di ridurre gli sprechi del 45 per cento entro il 2025. Se ne andrà anche un mondo, quello delle boccette trafugate in ogni dove

Del resto i segnali c’erano: si erano già provati, ultimamente, questi bottiglioni, negli alberghi della catena Ace Hotel in America. Non potevano che esser loro ad aprire il solco: hotel furbissimi, questi Ace, nati a Seattle, hanno abolito ogni lusso per assomigliare a camerette di adolescenti rockettari, in colori acidi e con pareti di cemento a vista, lampade di carta e seggiole da scuola scrostate (ma costano quanto il Ritz) e dunque sono diventati immediatamente “di culto”. Loro hanno dettato la linea anche nel mondo ormai al crepuscolo del flaconcino – qui per esempio puoi trovare astucci di profilattici, dei cereali bio, delle barrette alla quinoa, ma dei flaconcini neanche traccia. E’ una violenza, perché uno si vorrebbe sempre portar via un ricordo di queste esperienze alberghiere, soprattutto se lussuose e che normalmente non ci si potrebbe permettere. Anche quelle cremine che poi seccavano nei nostri mobiletti per anni, per decenni, ingiallendosi, perdendo di profumo.

 

Peccato: quanti ricordi non corroborati dal campioncino: andando giù a Los Angeles Downtown, in quel bellissimo centro storico cadente in una città notoriamente senza centro storico, tra negozi di bici materassi telefoni, si era scesi in questo Ace tra farmacie messicane, Walgreens, cinema-teatro sfasciati con venditori di “acqua fria” dal frigo portatile, teatri bombardati, il Roxie e il Los Angeles Theatre, con quattro colonne tipo Fontana di Trevi ma schiacciato, e l’orologio tipo Dalí a cui mancano le lancette, accanto a un negozio di prime comunioni. Era bello poi raggiungere questo hotel che sembrava uscito da Gotham City: in uno dei grattacieloni pinnati del déco disperato losangelino, con tutti gli stucchi e le facciate come castelli di sabbia. Quella volta, l’anno scorso, si fece fatica a entrare perché c’era una prima, e tra la folla poi si apprende essere “Atomic Blonde”, con Charlize Theron, nel teatro sottostante. Si saliva direttamente al bar, andando al tredicesimo piano, l’ultimo, e sbagliando, perché la piscina è al nono. Lì, un nugolo di venti-trentenni emaciati oppure salutari, che bevevano birre Modelo e gin tonic e acqua frizzante Topo Chico, la Lurisia messicana. La piscina, che è in realtà un idromassaggio, è piazzata strategicamente accanto al bar, e se qualcuno ha voglia prende e si tuffa. Si vedevano i frequenti aerei passare sopra le guglie del grattacielo déco , riflessi nella piscina in cui una ragazza di colore con dei Ray Ban a goccia dorati scacciava un’ape, e un suo amico sui vent’anni si lamentava dei malcostumi di Hollywood (non ancora #MeToo).

 

In questo hotel di languori adolescenti c’erano i famigerati bottiglioni: tre, scuri scuri (shampoo, bagnoschiuma, balsamo), di color verde cupo, come di bottiglia bordolese, e aspetto vagamente medicale-Aesop, la linea penitenziale costosa; blindati al muro da una staffa, per di più; poi tutto regolarmente in vendita presso la boutique dell’hotel, dove si vendono anche asciugamani e ciaffi (e addirittura la staffa medesima, per appendere il bottiglione a casa propria). Altri bottiglioni inchiavardati erano stati visti a Santa Monica in un piccolo boutique hotel del più puro Sunset Boulevard. Non potersi portar via un ricordo sembrava una crudeltà gratuita. Ma forse Instagram ha reso inutile il ricordo olfattivo dell’hotel.

 

Gli Ace Hotel, in America, dove puoi trovare astucci di profilattici, cereali bio, barrette alla quinoa, ma dei flaconcini neanche traccia

E’ la temperie ecologica, ci dice Bernabò Bocca, capo della Federalberghi e albergatore in proprio: “Prima era il cartellino del lenzuolo. Hanno cominciato a imporre di mettere il cartellino che chiede se proprio si vogliono cambiate le lenzuola, con danno all’ecologia”, dice al Foglio. Effettivamente in ogni hotel adesso si vede questo cartoncino minatorio. Certo che vorremmo le lenzuola cambiate; magari anche due volte al giorno. “Noi all’inizio eravamo contrari a esporre il cartellino, ci sembrava che in un hotel di lusso non fosse il caso. Ma i clienti ormai lo vogliono, soprattutto gli americani”. E poi è arrivata la temperie del flacone. “L’ho letta anche io la cosa di Marriott. Noi per ora continuiamo ad avere le nostre bottigliette. Certo sarebbe un bel risparmio, sia ecologico che di costi”. Ma quanto costa rinunciare all’emozione del flaconcino? “Diciamo che una bottiglietta in media costa sui quindici-venti centesimi, se di fascia bassa, quaranta se di qualità più alta”, dice Bocca. E quante se ne consumano? “Dipende. Se l’hotel ospita clienti che viaggiano per lavoro, una al giorno. Se è un resort cioè si viaggia per turismo, i clienti si fermano di più, tre o quattro notti, e la bottiglietta normalmente dura tutta la durata del soggiorno”. Dunque più resta il cliente e meglio è “assolutamente, anche perché sul costo del flaconcino l’ottanta per cento è della confezione, solo il venti per cento è del prodotto. E non si possono ricaricare”. Un gruppo come il suo, che fa quattrocentomila presenze all’anno, consuma dunque almeno altrettanti flaconcini. Un’ecatombe di amenities.

 

E di ricordi. Che affluiscono mentre si va in bagno arrampicandosi nel modesto appartamento romano su una vecchia mensola su cui si sono accatastate pile di campioncini. Ecco qui, boccettina grigina, Hotel d’Angleterre, Copenaghen. I flaconcini erano grigi, minimalisti, di pura “hygge”, cioè l’etica-estetica danese, che prevede calorosa semplicità. Alla menta. Lo apriamo, l’afrore di menta è quasi del tutto svanito. Era l’estate scorsa, ci si rifugiò dopo una gran delusione d’amore nel maestoso palazzo sulla principale piazza della capitale danese, per sfuggire al male di vivere, dopo una gita al cimitero cittadino. Ci si sorprese molto dei prezzi non così alti di tutto (si era frainteso il cambio), pur sotto il ritratto d’Andy Warhol della sovrana Margherita II che campeggiava nella reception (prima del decesso del marito). Si prenotarono due notti dunque nel micidiale albergo di massimo lusso cittadino, con spa sibaritica nell’interrato, dove si incontrò un signore molto atletico trattato con grande sussiego da tutti. Gli si voleva quasi chiedere cosa facesse per mantenersi così in forma, e poi saltò fuori che era Sting, per un concerto in città. Arrivarono dubbi su un hotel così ben frequentato eppure così economico.

 

Nell’hotel di languori adolescenti c’erano i famigerati bottiglioni: tre (sapone, shampoo, balsamo), blindati al muro da una staffa

Quando arrivò poi il conto della carta di credito si capì finalmente il cambio reale, tipo Fantozzi quando a Capri va al Quisisana pensando che il prezzo della suite imperiale sia mensile, non giornaliero (al Quisisana si andò invece tre anni fa per un’indagine nostalgica di spiagge italiane qui sul Foglio, e l’antico ex direttore ci fece vedere la piscina dell’hotel dove Paolo Villaggio aveva simulato il tuffo a secco fuori stagione (“cameriere, com’è l’acqua? Ma quale acqua?”). Nello stesso giro, si approdò alle Sirenuse di Positano, che sul marchio Eau d’Italie ha costruito un piccolo impero olfattivo, e l’astuccetto di shampoo-crema corpo-balsamo e bagnoschiuma che tutti abbiamo afferrato nelle fortunate notti positanesi lo vendono in negozietti lussuosi tra Positano e piazza del Popolo e adesso addirittura Miami dove c’è una nuova sede.

 

In altri hotel poi si andrebbe quasi solo per le amenities: e certamente quando si andò a Las Vegas decidendo di “scendere” al Trump Hotel, in quell’architettura basica, da Ceausescu, da socialismo reale però dorato (i grattacieli di Las Vegas sembrano un paese immaginario dell’Europa dell’est, ma con molto ottone. Ci sono le montagne, dietro, pare Nova Gorica in Slovenia), l’idea era di fare incetta di boccette. Il Trump è un enorme accendino Cartier, 64 piani di non-morbidezza, con “sopra” e “sotto” di cemento bianco che paiono il suo involucro, di polistirolo. Sotto, un enorme parcheggio multipiano che funge da piedistallo di questo grande parallelepipedo, portieri in livrea e due giganti suv neri targati TRUMP-2 e TRUMP-3, e si immagina che il TRUMP-1 sia in uso solo quando il presidente è in casa, tipo SCV1 per la papamobile.

 


Jean Frédéric Bazille, “La toilette”, 1869-70 (Montpellier, Museo Fabre)


 

In camera si fece ovviamente man bassa di tutti i gadget disponibili, da portare ad amici riflessivi e abbastanza spiritosi: il packaging, lettere dorate su fondo blu, è molto anni Ottanta, vecchi Trussardi. Drakkar Noir. Fragranze dimenticate. Un lime molto industriale. Molti agrumi. Ma il paradiso dei gadget era giù, nello shop, una wunderkammer del merchandising demente, un Eataly trumpista. Lingottini d’oro con inciso l’ubiquo TRUMP cubitale (è cioccolato al latte, 5 dollari), mentre lingottini uguali ma d’argento sono invece di cioccolato fondente. C’era anche il lingottone da 30 dollari, tipo Toblerone repubblicano. Poi i famigerati cappellini con la scritta “Make America Great Again”, nella finitura rossa, bianca, nera e camouflage. E poi filtri solari, creme da corpo, shampoo, penne a sfera, apribottiglie, magneti, tutto brandizzato e trumpizzato. E i vini: in uno scaffale a parte, tutta la produzione della Trump Winery, le fattorie in Virginia dove il clan si dedica alla vigna: un rosso (30 dollari) e uno chardonnay (30) e il top di gamma, il blanc de blanc (50), e un bordeaux “Meritage”.

 

Bernabò Bocca: “Hanno iniziato a imporre di mettere il cartellino che chiede se proprio si vogliono cambiate le lenzuola, con danno all’ecologia”

Ma tornando ai flaconcini, sarà davvero ecologia o è solo risparmio? “Gli hotel in realtà fanno in modo che tu li porti via, è una questione di pubblicità” ci dice il boss degli albergatori italiani. E di autodifesa, sembrerebbe. Perché i clienti si rubano qualunque cosa. “Rubare è un termine che non userei. Direi, uhm…”. Prelevare? “Ecco, sì, prelevare”. Quanto prelevano i clienti? “Beh, prelevano qualunque cosa. Anche un aspirapolvere, una volta, è capitato. Lenzuola, le lenzuola sono all’ordine del giorno, soprattutto se di lino. E parliamo di clienti che magari spendono mille euro a notte per dormire”. Dunque marchiate tutto per difendervi. “Anche, sì, certo”. Rimane il solito mistero insondabile: perché si abbonda nei prodottini tipo balsamo, che mai si usano, e invece non c’è il fondamentale dentifricio? “Perché costa un botto!” dice Bocca. Ma come, il dentifricio costa più di uno shampoo? “Certo, e oltretutto perché è in kit con lo spazzolino, di solito chi dimentica dentifricio dimentica anche lo spazzolino. Comunque se lei scende dal concierge glielo danno gratis”. Lo danno ma non te lo fanno trovare.

 

Ma come reagiranno i clienti, come reagiremo tutti noi privati di queste madeleine schiumose? Molte case si svuoteranno. Ci sono categorie professionali più a rischio prelievo di campioncini di altre. Soprattutto nei viaggi-stampa, si hanno ricordi micidiali di prelevatori seriali non solo di campioncini ma anche di pantofole – le celebri pantofole cartonate però preziose in quanto portatrici dello stemma dell’hotel. Ci sono colleghi – non li nomineremo – che ne hanno accatastate centinaia in appositi comparti degli armadi (per indossarle quando? Non si sa). In certi bagni i campioncini sono sistemati piramidalmente nelle vasche da bagno a segnalare status: legioni di shampoo del Miramonti di Cortina, del Gritti di Venezia, del Carlyle di New York. Spesso ci ricordano vite al di sopra delle nostre possibilità, viaggi a sbafo, occasioni irripetibili.

 

A Copenaghen flaconcini grigi, minimalisti. Al Trump Hotel di Las Vegas filtri solari, creme, shampoo, tutto brandizzato e trumpizzato

Come all’Augustus Lido, compound marinaro al Forte dei Marmi ricavato nell’ex villa Agnelli; compound dotato di passaggio sotterraneo per andare in spiaggia (l’unico della Versilia); e lì, nel teatrino domestico delle storie di “Vestivamo alla marinara”, dove i piccoli bambini Agnelli giocavano, dove partiva l’idrovolante che li riportava a Genova (e poi a Torino); adesso è appunto un hotel di massimo lustro, ma che ha mantenuto un sapore vecchiotto, con chiavi al posto di schede magnetiche, tutto voluto da Titti Maschietto, architetto-albergatore che fu uno dei protagonisti del gruppo degli architetti radicali fiorentini – e nella ex rimessa dell’idrovolante Agnelli ci fu per anni la leggendaria discoteca Bamba Issa, dal nome di un’oasi immaginaria. Oggi, tutto conservato perfettamente, non solo nella villa Agnelli ma anche in quelle, posteriori, Pesenti, in un complesso di massimo understatement: e nessuna scheda elettronica per aprire porte, bensì pesanti chiavi, e amenities molto local di Lorenzo Villoresi, “naso” fiorentino dei più pregiati.

 

“E’ una airbnbizzazione degli hotel, ma non so se funzionerà”, dice Camilla Baresani che ha scritto il romanzo “Gli sbafatori”

In hotel meno sobri, compagni che sbagliano: nei viaggi stampa delle riviste di automobili ti fanno sempre svegliare a ore antelucane, è sempre tipo: in questo sei stelle più premiato della Lapponia ci sarebbe la spa migliore dell’emisfero ma purtroppo non la possiamo usare in quanto dobbiamo alzarci alle sei per provare il nuovo Suv Bentley per sette ore sul lago ghiacciato, e i colleghi del ramo-auto, categoria delle più sbafatrici, abituata a decenni di soggiorni in hotel sibaritici, è abituata a travasare rapidamente shampoo-balsami-creme corpo in valigia anche senza farsi la doccia, poi rimettendosele in casa sovrappensiero. Tecniche consolidate negli anni: mentre provi il suddetto Suv in coppia (si viaggia sempre in coppia), spesso ti capita il decano degli sbafatori automobilistici, ti racconta dei suoi sette camel trophy, di quando si fumava in aereo, e ti guarda con sufficienza quando nel viaggio-stampa tu, ingenuo, dai la carta di credito al check in. “Non devi mai dare la carta, se è un vero full-board stampa non te la devono chiedere”, nel senso che puoi davvero consumare tutto quello che vuoi. Il full board sbafatorio automobilistico lo si provò all’hotel Des Bergues di Ginevra, affacciato sul lago (per un salone dell’auto), con amenities Penhaligon’s (aristocrazia dell’amenity, con Royal Warrant, fornitori di casa Windsor). Altro marchio che segnala l’empireo della boccetta è Molton Brown, anche questi fornitori di real case e nei migliori bagni d’albergo del globo. Ci sono poi gli hotel talmente snob da avere anche marchi un po’ di massa: al mitologico Carlyle di New York (abitato tra gli altri da John Fitzgerald Kennedy, con la moglie Jacqueline, e l’amante Marilyn, che vivevano tutti e tre nell’hotel in tre suite separate, con allegre scorribande notturne) si rimase stupiti di trovare boccette Kiehl’s (che pure si trafugarono in quantità), appena nobilitate però da saponette no-logo ma con stemma dell’hotel inciso (come pure sul vetro delle docce), ed era in fondo tutto coerente con il carattere insopportabilmente chic dell’hotel, con tubi dell’aria condizionata a vista, puzze di gasolio, moquette rosicchiate, ma anche ereditiere di Park Avenue con diamanti e Bloody Mary alle 8 di mattina, autorità, reali vari; e quattro ascensori con altrettanti ascensoristi che vanno su e giù ogni giorno, e, sopra, tanti appartamenti privati (quello di Calvin Klein, quello di Nancy Reagan ormai musealizzato, con le tante pulsantiere di cui era appassionata e che invece spazientivano il marito) i cui proprietari si ritrovano, se viventi, accanto a voi in ascensore (noi si incontrò Barry Diller, marito di Diane von Fürstenberg).

 

Perché si abbonda nei prodottini tipo balsamo, che mai si usano, e invece non c’è il dentifricio? “Perché costa un botto!” dice Bocca

“Ci sono tante sfumature”, dice al Foglio Camilla Baresani, che ha scritto un romanzo, “Gli sbafatori”, sui professionisti dello scrocco, e ne sta scrivendo un altro che vede protagonista proprio un produttore di amenities per albergo. “C’è al livello più basso la pensione che dà la confezione di sapone o shampoo, poi l’hotel di semilusso che dà il prodotto a marchio suo, e poi negli hotel di massimo lusso sono prodotti da marchi di profumeria per l’hotel stesso. Alcuni offrono prodotti come Penhaligon’s o Acqua di Parma. Ci sono apposite aziende che producono saponi e flaconcini con licenze di grandi marchi appositamente per hotel. E fiere del settore” dice la scrittrice. Tutto questo pare dunque che scomparirà, salutando l’arrivo del bottiglione. “Mi sembra che siamo di fronte a un’airbnbizzazione degli hotel, come se si trasformasse l’hotel in un’esperienza casalinga. Ma non so se funzionerà. Mi sembra più che altro un’americanata, come le ricariche per i detersivi, che in Italia comprano in pochi. O come i negozi che vendono solo detersivi ricaricabili, che da noi non hanno molto successo”. C’è anche il rischio risentimento sociale-hater: “E poi, di fronte al bottiglione, mi chiederei sempre con timore se il cliente precedente non ci abbia messo qualcosa dentro”.

 

Un rischio non del tutto evitabile secondo Francesco Saccomandi, direttore marketing di La Bottega, leader italiano (e non solo) nella produzione di amenities; “ci sono stati casi di contaminazioni”, dice al Foglio Saccomandi, che lavora per l’azienda italiana che produce per licenza le boccette per oltre 40 marchi come Etro, Cavalli, Bottega Veneta, e molti altri, e fornisce gli hotel di massimo lusso (dalla catena Four Seasons, ai Forte Village, al Pellicano, ai Nobu Hotels). In pratica il loro business è andare dai grandi marchi (della profumeria, ma anche della moda) e produrgli per licenza le boccette che noi poi collezioneremo. “A loro finire nei bagni di catene come Four Seasons dà grande visibilità”. La Bottega, con sede nelle Marche, è un’azienda familiare di seconda generazione che fattura circa 85 milioni di dollari (in aumento del 9 per cento rispetto all’anno scorso) grazie non solo alle boccette ma anche alle “dry amenities”, cioè “grucce, tessili, accappatoi, pantofole, calzascarpe”. Anche se le boccette costituiscono il 70 per cento dei loro affari. Saranno spaventati dalla fine delle amenità liquide. “Per niente”, dice Saccomandi. “Noi facciamo ogni formato, siamo già pronti anche per quelli più grossi, per i boccioni da 300 millilitri e anche da un litro”, dice. Insomma l’epoca della boccetta è davvero finita. Ma “il cambiamento sarà graduale”, assicura il manager. “Del resto in alcuni paesi già il dispenser è molto richiesto. Per esempio in Germania”. Ti pareva. Colpa della Merkel anche questo: adesso l’austerità arriva anche in bagno.

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