Marcello Fonte al Festival di Cannes. Foto LaPresse

La strada dei sogni

Fabiana Giacomotti

Desideri sviliti dalla cultura del bisogno, che chiede e ottiene rapide soddisfazioni. Guardate invece la fatica e il sorriso di Marcello Fonte

Nel mondo che inscena la commozione per qualche like su Instagram, il ”Dogman” Marcello Fonte che sale sul palco del Festival del cinema di Cannes ed evoca le lamiere della baracca della sua infanzia, quando scambiava il tamburellare della pioggia per applausi, sembra uscire dall’epoca dimenticata di “Cuore” e di quella cultura del bisogno che ormai molti di noi scambiano per gonfia retorica, insieme con tutta la letteratura che la celebra. Il ragazzino poverissimo che si fa strada per la propria intelligenza e rettitudine morale. Il buono senza un soldo che non cede alle lusinghe dei malvagi. La virtù premiata e la viltà punita, le difficoltà vissute come opportunità: conoscete la lezione perché, se avete almeno una cinquantina d’anni, ve l’hanno fatta digerire insieme con il pane, il burro e lo zucchero della merenda, ed entrambi vi erano sembrati pesantissimi e stucchevoli fino a quando vi siete scoperti ad applicarla senza esservene accorti, praticamente a vostra insaputa. Vi hanno messo un ostacolo davanti e voi sapevate come scavalcarlo; vi hanno mandato a gambe all’aria e vi siete rialzati invece di buttarvi dalla finestra o di darvi agli ansiolitici. Avevate la faretra colma di frecce, la portavate da anni senza sentirne il peso: al momento buono avete allungato la mano dietro le spalle e le frecce erano lì, temprate dalla difficoltà e dall’energia del riscatto, impazienti come voi di andare a segno.

  

La virtù premiata e la viltà punita, le difficoltà vissute come opportunità: conoscete la lezione se avete una cinquantina d’anni 

Non tutti noi, anzi e fortunatamente pochissimi di noi, hanno avuto un’infanzia dickensiana come quella del miglior-attore-del-momento che viene da commuoversi solo a scriverlo, con quella faccia che sembra uscita da un film neorealista tanto è antica e invecchiata anzitempo fra l’educazione mancata e le particine e i teatri occupati, una faccia da affresco di Giotto che sorride mentre stringe la Palma d’Oro. Però, mentre il-miglior-attore raccontava candidamente alla stampa mondiale dell’esitazione a prendere il premio per “godersi di più il momento” lì, sul palco del Palais des Festival, abbiamo capito che le sue doti, e persino il suo candore, erano stati forgiati sotto il tetto di lamiera e che era giusto e bello vedere lui a prendersi la Palma d’oro invece di qualche beniamino del cinema francese, o degli sponsor, o degli dei dell’Olimpo. Uno che ha modellato la propria esistenza per il raggiungimento di un obiettivo che era talmente nebuloso da sconfinare nel sogno (“vengo dalle grotte calabresi, da ragazzo non sapevo che cosa fosse un cinema”), ma che è andato definendosi insieme con una progressiva presa di coscienza, di educazione, di volontà. Volli, fortissimamente volli. “Marcello incarna il volto di un’Italia che va scomparendo”, ha detto il regista Matteo Garrone, subito dopo la vittoria del suo protagonista: “Un personaggio che vuole essere amato da tutti, un Buster Keaton moderno”. Un uomo pieno di ombre che conosce i valore del sì perché ha vissuto quello del no: una dinamica sempre più sconosciuta e che per l’appunto giustifica questa visione di Marcello Fonte come di quell’anima “antica” che anagraficamente non è, ma che la sua figura irresistibilmente evoca. Un fiore del campo più aspro e duro in un momento storico di fiori di serra, cullati e protetti e giganteggianti di integratori e vitamine, pronti ad afflosciarsi al primo soffio di vento fra le finestre esposte al sole. Venite in università e ne troverete a centinaia, mentre prendono appunti diligentemente e non hanno idea di cosa vogliano fare nei prossimi sessant’anni. Seduti anche in senso metaforico, sdentati di fronte alla vita perché satolli a prescindere.

  

Forte la risposta ideale a Luigi Di Maio che ha tentato di farsi nominare premier sfoggiando un curriculum da liceale 

Dogman è il figlio sconosciuto di una generazione arcana di genitori di cui stenteremmo perfino ad attribuire tratti simili ai nostri. Niente cinema, niente cellulari, zero sneaker ultimo modello, vacanze in Grecia, campetti di calcio e lezioni di pallacanestro, merendine confezionate e playstation; nessun percorso simile a quello di milioni di ragazzini in tutto il mondo oggi come venti o trenta anni fa, e in gran parte a prescindere dalle loro condizioni economiche perché troverete le stesse sneaker ai piedi del pariolino e del compagnuccio di Tor di Quinto, di viale Majno e di Baggio, e tutte saranno state comprate dai genitori, quasi mai acquistate con i soldi delle ripetizioni date, delle commissioni fatte per lo studio notarile del piano di sotto, del lavoretto nel negozio del centro il sabato pomeriggio (non stiamo scrivendo di derelitti o di famiglie in difficoltà: fece la commessa anche Anna Wintour, direttore ormai trentennale e infatti di prossima uscita di Vogue America, e suo padre Charles era direttore dell’Evening Standard; che fosse riuscita a farsi assumere nel negozio più cool dell’epoca, Biba, va ulteriormente a suo onore e infatti figura nel curriculum).

   

Le sue doti e persino il suo candore sono stati forgiati sotto quel tetto di lamiera. Giusto e bello vedere lui a prendersi la Palma d’oro 

Nella società del consumo sfrenato e continuativo modellata sulle teorie di Hélvetius e degli edonisti illuministi, sul “desiderio del piacere” e la materialità del reale da cogliere con i cinque sensi, c’è un che di straniante in una storia che, come quella di Fonte,  che parla di desiderio in  un contesto dove questo desiderio non ha neanche il modo di rappresentarsi, e che eppure su questo si modella al punto di diventare motore di un’esistenza. La cultura del bisogno, che forse andrebbe definita l’educazione al bisogno e che è stata ampiamente superata da quella che la pedagogia moderna, e in particolare Domenico Simeone dell’Università Cattolica, celebra come la “metalogica del desiderio” (“Quando facciamo un progetto educativo, partiamo dalla rilevazione di un bisogno, ma forse dovremmo analizzare i desideri”), ha prodotto infatti un’orda immane di soggetti desideranti e subito esauditi che ha cancellato i dettami della generazione pedagogica precedente, trasformando il sogno e la sua soddisfazione in un momento unico che svilisce la portata di entrambi. Il desiderio non presuppone più un percorso, non postula la ricerca dei mezzi per raggiungerlo e la soddisfazione nell’averlo fatto, la gioia del viaggio per così dire e come direbbe persino Jovanotti. Il desiderio subito esaudito, che si trasforma nella mancanza dello stesso, nella sua negazione, ha azzerato il senso di tutta la letteratura occidentale ottocentesca, orientata, come noto, sulla riuscita personale nelle avversità, che era poi la condizione naturale per milioni di persone in tutta Europa e negli Stati Uniti: si arrivava in città poveri in canna come i ragazzini di Charles Dickens e si poteva sperare di guadagnare di far carriera come quelli di Balzac, magari senza accettare i compromessi dei personaggi di Maupassant o finire in galera come quelli di Sue. Date in mano adesso a un ragazzino “Oliver Twist”: non riuscirà nemmeno a cogliervi lo spunto per una riflessione sul dramma dell’integrazione per i suoi coetanei immigrati. Non sa, non gli interessa, che noia. Questa letteratura popolare, ormai materia per specialisti, ha avuto seguito e, appunto, senso, fino a tutta la Seconda guerra mondiale e i primi anni del boom. Poi, in Italia come altrove, siamo a poco a poco diventati benestanti, i beni del consumo vistoso hanno gradualmente diminuito la soglia di accesso fino all’avvento del fast fashion e del fast food, del viaggio intercontinentale a duecento euro e del cellulare ultimo grido concesso in comodato d’uso dietro abbonamento da trenta euro al mese. In questo quadro oltremodo favorevole, i desideranti hanno scoperto il potere magico della cosiddetta instant gratification, derivato diretto della coscienza di sé: io valgo, io posso, io subito.

   

Il figlio sconosciuto di una generazione arcana di genitori. Niente cinema, niente cellulari, zero sneaker ultimo modello

Non vorrei procedere per luoghi comuni e generalizzazioni, ma è un fatto che raramente le storie di grande successo siano partite con un’accelerata sulla Highway 1 verso Big Sur (pensate a Steve Jobs), ed è per quello che piace leggerle e scriverne: perché offrono l’idea, il conforto, che l’impegno ripaghi già in vita, e che in quella successiva interverrà  comunque la giustizia ultraterrena evocata da fra’ Cristoforo. Verrà un giorno. Fonte piace a un certo mondo adulto perché è la risposta ideale a Luigi Di Maio che fino all’ultimo ha tentato di farsi nominare premier sfoggiando un curriculum da liceale in programma di scambio scuola-lavoro, perché con il suo esempio ha zittito i milioni di italiani che già si cullavano nell’idea di potersi fare largo nella vita con il solo bagaglio di una gran faccia tosta e di una mediocre cravatta comprata ieri. La fatica vera, l’obiettivo perseguito stringendo i denti e continuando a sperare contro mamma Di Maio che racconta del suo Giggino vissuto in casa al caldo fino all’altro ieri e contro i manuali di autoaiuto. Mancando i motivi per fare fatica, prosperano invece i manuali di motivazione al successo, dove le regole per raggiungerlo vengono fornite in comode pillole aforistiche per l’ auto-somministrazione quotidiana (“Riuscire a motivarsi facilmente e in ogni momento” è il primo titolo proposto da Amazon, azienda di uno che probabilmente non ha mai avuto bisogno di darsi la carica perché ha spaccato il mondo e le legislazioni sul lavoro in un decennio).

  

Nell’attuale riflusso della famosa teoria dei “no che aiutano a crescere”, best seller di Asha Philips molto disatteso, il mondo infantilizzato che si esprime per sole affermative e lamentele, diretto derivato della soddisfazione, si trova con le armi spuntate e i processi comportamentali introiettati fin dai primi passi completamente fuori giri. Non c’è rapporto di causa-effetto, perché si sono saldati in un tutto idealmente vacuo e non di rado materializzato in un oggetto. In sintesi: hai bisogno di parlare? Ecco cento euro, compra quel che vuoi. “Prometti di scrivermi una volta ogni cinque giorni: sono molto contento se lo farai, dimostrandomi di avere forza di volontà. Io ti risponderò sempre e molto seriamente”, scrive Antonio Gramsci dal carcere al figlio Giuliano. Siamo a metà degli anni Trenta e in queste poche righe c’è tutto quel che c’è da sapere, la summa di ogni libro e saggio di pedagogia: voglio da te serietà e impegno perché rispetto le tue opinioni e ti amo come figlio, ma io ti darò altrettanto amore e rispetto. Nulla si monetizza, nulla si cerca se non un mutuo scambio e il desiderio di coltivare nell’altro, genitore o figlio che sia, il meglio delle sue capacità espressive. John Stuart Mill scrive di aver avuto l’intuizione di quale fosse il suo scopo nella vita nell’inverno del 1821, leggendo Bentham: avrebbe voluto essere un riformatore del mondo. “La mia concezione della vita era totalmente identificata con questo scopo… Ero abituato a felicitarmi con me stesso per la certezza di godere una vita felice, poiché ponevo la mia felicità in qualcosa di durevole e distante, dove un qualche progresso si sarebbe sempre dato, anche se non avrebbe mai potuto esaurirsi in un completo adempimento”. Cinque anni dopo, si rese conto dell’orrore a cui andava incontro, formulandosi una domanda: “Supponi che tutti i tuoi scopi siano realizzati; che tutti i cambiamenti nelle istituzioni e opinioni che ti auguri possano effettuarsi interamente proprio in questo istante: sarebbe una grande gioia e felicità per te?”. Si rispose di no “e le intere fondamenta su cui era costruita la mia vita crollarono”. Improvvisamente “tutto era insipido o indifferente”. Pur continuando la sua vita attivissima, entrò in depressione (“ero così avvezzo a un certo tipo di esercizio mentale che potevo proseguirlo anche quando lo spirito si era dileguato”), faticando a uscirne fino a quando riuscì a lavorare meglio proprio sul tema che per lui progressista e futuro padre del liberalismo, era il più ostico: il tema del dolore vissuto secondo le parole del contemporaneo Coleridge ( “Un vuoto, oscuro, tetro dolore senza spasimo”) e di Auden, anticipatore delle tematiche del Novecento nella “Age of anxiety”. La disperazione che nasconde il sorriso. Come quello storto di Marcello Fonte, che va dritto al cuore.