"Dogman" merita di vincere l'Oscar

Mariarosa Mancuso

Il film di Matteo Garrone è scelto per rappresentare l’Italia a Los Angeles

"Matteo Garrone merita di vincere tutto”. Lo avevamo scritto dal Festival di Cannes, pensando alla Palma d’oro. Ha avuto solo una Palma d’argento, vinta dall’attore Marcello Fonte – il primo premio è andato a “Un affare di famiglia” di Hirokazu Kore’eda (dovrebbe resistere ancora qualche giorno nelle sale italiane). “Dogman” merita di vincere anche l’Oscar, ora che è stato scelto dalla commissione Anica per rappresentare l’Italia alla gran festa del cinema. Appuntamento a Los Angeles, 24 febbraio 2019. Noi siamo già qui a fare il tifo, per una volta che il cinema italiano lo consente.

 

Un notevole passo avanti rispetto all’anno scorso, quando fu scelto “A ciambra” di Jonas Carpignano: il film era prodotto da Martin Scorsese, parlando di Oscar sembrava un punto a favore. I punti a sfavore – primo fra tutti l’ostinato disinteresse del regista nei confronti degli spettatori, proiettati per un paio d’ore tra i rom di Gioia Tauro, con una trama minima – passarono in secondo piano. Non riuscì a conquistare un posticino neppure nella shortlist dell’Academy (i film “foreign language” sottoposti dai vari paesi del mondo sfiorano il centinaio).

 

“Dogman” è sicuramente il più bel film italiano del 2018. Non solo perché la concorrenza è scarsa: tra i 21 titoli che ambivano a rappresentare il paese di Federico Fellini agli Oscar qualcuno ha stentato a trovare spettatori nel cinema sotto casa. E’ scritto benissimo, prendendo spunto da un caso di cronaca nera a cui Matteo Garrone pensava da oltre dieci anni. “Scritto”, vuol dire scritto anche quando non sentiamo dialoghi. Per esempio, quando Marcello il toelettatore di cani lima le unghie all’alano che porge la zampa come se fosse dalla manicure (così vengono trattati i cani in questo film, non date retta a chi “ovviamente” il film non l’ha visto e racconta sciocchezze). “Scritto” – da Matteo Garrone con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso – vuol dire che in scena c’è solo la violenza necessaria. Ed è pure poca, rispetto al Canaro della Magliana e alle sue torture.

 

“Dogman” è scritto benissimo e girato meglio. Matteo Garrone è l’unico regista italiano che sa raccontare con le immagini, dev’essere perché ha cominciato come pittore. Per affrontare subito il duello: Paolo Sorrentino girerà pure belle inquadrature – per il nostro gusto un tantino virante al kitsch – ma da “L’amico di famiglia” in qua non ha una storia da raccontare (e neppure si preoccupa di trovarne una). Dodici anni di preparazione sono serviti a trovare l’attore giusto, con la faccia sghemba di Marcello Fonte che passa dalla cotonatura per il concorso di bellezza canina ai maccheroni amichevolmente divisi: uno lui, uno il cane. E sono serviti a trovare la periferia adatta, tutta pozzanghere e neon guasti, fotografata magnificamente da Nicolai Brüel senza una sfumatura di cronaca o di sociologia.

 

La storia è universale, quindi adatta a girare il mondo. L’uomo dei cani ha per unico amico (si fa per dire) il picchiatore del quartiere (l’attore Edoardo Pesce, bravo e imponente e strafatto) che ha un piano dissennato: intende scassinare la cassaforte di un vicino. Quando le cose si mettono male, il debole decide di vendicarsi: libererà il quartiere dal cattivo, convinto che lo acclameranno come un eroe. Se vogliamo trovargli un difetto, forse si poteva pensare a un manifesto meno cupo, capace di rendere anche la tenerezza, la comicità, la compassione di “Dogman”.

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