Nicola Zingaretti e Virginia Raggi (foto LaPresse)

E se il Lazio non fosse un modello?

Marianna Rizzini

Bagno di realtà per Zingaretti che sognava di domare la bisbetica sinistra (vedi alla voce “Ulivo”)

Roma. Lo specchio rovesciato, fino a qualche giorno fa, rimandava un’immagine che a molti, nel Pd tramortito dalla sconfitta elettorale e nei Cinque stelle non convinti dalla tentata intesa con Matteo Salvini, era sembrata la felice anticamera di un possibile quasi impossibile nel paese: ecco Nicola Zingaretti, neo-governatore laziale del Pd, che disegnava la geometria alternativa a quella visibile dopo il voto nazionale. “Modello Lazio”, si era detto: cioè un Pd vincitore e non vinto che, pur senza maggioranza, andava a cercare il dialogo con i Cinque stelle e gli alleati nel campo della sinistra-sinistra già amica in campagna elettorale, e cioè presso Leu, creatura anch’essa ammaccata dal voto.

 

E i Cinque stelle che, sul piano nazionale, con Luigi Di Maio, dovevano acconciarsi a guardare a destra, nel Lazio potevano restare sulla linea che pareva la via prescelta la notte del 5 marzo, poi resa impervia dal niet renziano: cercare una sponda nel Pd “derenzizzato”. Le difficoltà, per Zingaretti, nel frattempo uscito allo scoperto con la candidatura alle future primarie del Pd, al grido di “il modello è l’Ulivo”, sembravano legate alle possibili mosse degli avversari di centrodestra, molto divisi ma anche determinati a sfruttare la situazione di non-maggioranza zingarettiana.

 

C’erano state persino le dichiarazioni pro intesa Pd-Cinque stelle di Roberta Lombardi, già candidata grillina per la Regione (“mai con Silvio Berlusconi”) e del vicesindaco della giunta Raggi, Luca Bergamo, ancora più diretto nel perorare la causa del guardare a sinistra, specie in giorni in cui a Di Maio viene attribuita la capacità mimetica di imitare la Democrazia cristiana sul piano della “politica del doppio forno” (“i Cinque stelle guardino oltre Salvini, chi ci sta batta un colpo”, ha detto Bergamo). E però il primo vero intoppo, nel Lazio del “modello Lazio”, non è venuto dal centrodestra in ebollizione, dove ieri Sergio Pirozzi, l’uomo che nel centrodestra è considerato colui che ha reso impossibile una vittoria che si pensava di avere in tasca, diceva “no” anche soltanto alla prospettiva delle “consultazioni” con il neo governatore (“per me andrebbe fatto cadere prima possibile”). L’intoppo, come nell’evocato “modello Ulivo” che Zingaretti ha come faro nella battaglia interna al Pd, nasceva dalla costola sinistra: “Il patto è sciolto, via dalla giunta”, dicevano i Liberi e Uguali. Motivo scatenante: il dissenso interno a Leu sul nome del possibile assessore al Lavoro, e il non intervento di Zingaretti. Fallita al momento la mediazione di Pier Luigi Bersani, l’appoggio esterno restava comunque assicurato dai buoni rapporti Zingaretti-Daniele Ognibene, consigliere regionale mdp (molto rumore per nulla?). Intanto il governatore dava il via alle consultazioni regionali (prima in lista: Roberta Lombardi).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.