Il leader politico del Movimento 5 stelle, Luigi Di Maio, esce dalla cabina elettorale di Montecitorio dopo avere votato per il presidente della Camera (foto LaPresse)

Odio ergo voto

Mario Morcellini*

Tutta colpa della disintermediazione? La crisi del rapporto tra media e società e una comunicazione che predilige l’antagonismo a priori spiegano la vittoria di Lega e M5s

Decantata la prima fase del dibattito post elettorale, occorre passare a proposte interpretative non legate alle prime reazioni, e che riescano a rendere più comprensibile il risultato del voto. Oltre l’abusata metafora del terremoto, la parola chiave che viene in mente è “smobilitazione”, perché definisce con pertinenza la diffusione di un atteggiamento critico nei confronti delle forme e dei contenuti dell’offerta politica che, trascinandosi dalla Prima alla Seconda Repubblica, ha connotato la fase storica recente.

 

L’errore che non possiamo permetterci è restringere i risultati al solo mondo della politica, perché si capisce qualcosa solo chiamando in causa un fenomeno ben più complesso e decisivo: la crisi dei corpi intermedi e delle appartenenze, che si traduce nello svuotamento progressivo dei punti di riferimento accettati collettivamente. Il loro declino in termini di capacità direttiva prende chiaramente le mosse da ristrutturazioni e ricomposizioni economico-sociali, ma coinvolge soprattutto la funzione essenziale della mediazione.

 

Se non si studia il cambiamento, il risultato elettorale sarà sempre un terremoto

 

Mai come stavolta, la presa d’atto dell’esaurimento normativo dei corpi intermedi (inclusi partiti e media), cessa di essere una locuzione sociologica, e si impone nella sua cruda evidenza. Ma anche qui occorre una precisazione: la percezione pubblica del cambiamento è, ovviamente, più acuta a ridosso di un risultato elettorale inevitabilmente vistoso, anche se la progressività e profondità dei cambiamenti era da tempo evidente e, per molti versi, ben chiara ai ricercatori.

 

L’errore da evitare è restringere i risultati al solo mondo della politica. Si capisce qualcosa solo chiamando in causa la crisi dei corpi intermedi

Non è invece normale che una società democratica abbia così scarsa cura dei propri valori fondanti, al punto da trascurare le conseguenze del progressivo esaurimento dei rituali potenzialmente unificanti costituiti dall’indicazione pubblica dei valori condivisi. Eppure, è quel che è successo nel nostro paese, e certo non riguarda solo il fatidico 4 marzo. A fronte dei risultati elettorali, però, l’accelerazione dei cambiamenti sociali diventa bruciante e vistosa, rendendo urgente la necessità di interpretarli criticamente. Ripartiamo allora dall’ultimo decennio e, in particolare al quinquennio alle nostre spalle, non trascurando di tematizzare la relazione tra comunicazione e processi di trasformazione dei progetti e delle mete esistenziali. Fino all’inizio di questo secolo, la comunicazione svolgeva ancora un ruolo di integrazione e di piattaforma condivisa (communis opinio), definendo e strutturando lo spazio pubblico, dando luogo a un “matrimonio di convenienza” tra media e società. La comunicazione ha guardato a lungo alle istituzioni per crescere e legittimarsi, sentendosi sempre più parte della classe dirigente; ma questo rapporto è entrato in profonda crisi nel momento in cui ha smesso di essere un elemento di sostegno e di conferma delle istituzioni, assumendo una postura di antagonismo e radicalizzando una drammatizzazione del paese senza alcun riferimento ai dati di realtà.

 

Per cogliere per intero questo processo occorre chiamare in causa il concetto mai sufficientemente studiato di disintermediazione, partendo subito da una precisazione terminologica: tale termine rimanda al superamento della funzione di “guida alla lettura della realtà” storicamente in capo ai media, al giornalismo e alle organizzazioni politiche. Tutte realtà a cui la nuova società fa scarso riferimento nei comportamenti di routine e soprattutto nel dosaggio quotidiano di messaggi e notizie.

 

Il soggetto moderno rivendica la pratica della “navigazione a vista” nella costruzione di un percorso “personale” di lettura e approfondimento entro l’ampio catalogo di news offerto dall’eccedenza informativa. Politica, scuola e giornalismo sono i luoghi sociali in cui tradizionalmente vinceva una capacità di mediazione professionale o comunque esperta, che si interponeva tra Istituzioni e pubblici. Il cambiamento che su questo specifico punto si evidenzia non potrebbe essere più radicale: lungo tutta la filiera del rapporto tra i soggetti (soprattutto giovani) e lo spazio pubblico/istituzionale, si inseriscono e si moltiplicano spinte centrifughe connotate da un insurrezionismo del soggetto che coinvolge una sorta di licenziamento del passato e di qualunque tradizione, con il corollario inevitabile di retoriche della rottamazione e del giovanilismo. Altro che azione collettiva o partecipazione!

 

Questo trend storico non è stato indagato nella sua portata di radicale riorientamento del processo e dei contenuti della socializzazione tradizionale; è dunque il momento di non accontentarci più di teorie rassicuranti che si limitino ad invocare tempi migliori e improbabili processi di ritorno ai valori del passato. Non succederà più semplicemente perché la disintermediazione è ormai assurta a nuova piattaforma di comportamento, accanto ai resti superstiti di quella che fu la “costituzione sociale degli individui”. Del resto, quella che con un ossimoro potremmo definire la società disintermediata necessita di una sua lingua e comunicazione veicolari, anche per mascherare il vuoto sopraggiunto nelle mediazioni sociali. È così che essa produce processi di sostituzione dei valori pubblici con nuovi e più o meno improvvisati riferimenti. Qui la comunicazione, soprattutto digitale, si presenta come un vero e proprio prontuario che offre, a basso costo, un minimo di senso comune per riempire i gusci svuotati della socializzazione tradizionale. Essa, del resto, si giova della fame di comunicazione che caratterizza i moderni e le culture giovanili, antagonizza la paura del silenzio e della solitudine, e per di più si ammanta dei gadget più stimolanti della modernità, come le tecnologie portabili. Un processo di questo genere è particolarmente vistoso nel continente giovanile, e non avrebbe avuto la stessa fortuna se solo si avesse avuto più cura di riflettere sulla natura intimamente socializzante del lavoro. In altre parole, se attacchi o precarizzi il lavoro, la vittima designata è l’integrazione sociale.

 

Come conseguenza, il problema che la modernità ci pone è il processo di rapida sostituzione della partecipazione con una sorta di virtualizzazione delle relazioni sociali; in tempi di crisi qualunque forma (anche figurativa) di interazione certamente produce benessere o più propriamente “condivisione”, ma è dubbio che si ponga davvero come forma disgregata di capitalizzazione delle relazioni fiduciarie, come invece avveniva nella “società delle appartenenze”. Per dirla tutta, la comunicazione ti fa compagnia nelle crisi, ma non ce la fa a proteggerti dai suoi costi.

 

Giornali e programmi tv hanno costituzionalizzato il rancore e l’odio rinunciando spesso alla verifica di sostenibilità delle proposte

La prova più evidente è nello spostamento già avvenuto della condizione giovanile in “un mondo a parte”, dove l’incomunicabilità con adulti e istituzioni finisce per costruire giovani sigillati entro la propria ristretta generazione, moltiplicando l’estraneità nei confronti degli adulti ma più in generale di chiunque non faccia capo al tuo cluster digitale, a partire dalla sostanziale rimozione delle altre età.

 

Siamo così arrivati più vicino al luogo cognitivo in cui ha stravinto la disintermediazione: il rispecchiamento di sé e la reclusione in infinite echo chambers aperte solo a gruppi virtuali tra pari; la lingua lì parlata è quella della tautologia, il risultato è un terremoto antropologico e dunque anche politico. Il soggetto si culla entro sogni di autonomia gratificati soltanto dalle figure della comunicazione, coltiva una specie di ideologia antisociale e rottama tutto ciò che non è al passo del suo grido di solitudine.

 

Il progressivo rifiuto, così caro ai moderni, di qualsiasi esercizio di mediazione e di leadership fa scomparire dalla scena una funzione di filtro e di semplificazione dei contenuti, che facevano assurgere la comunicazione a forma elementare, ma indispensabile, di narrazione del mondo sociale; viene meno, contemporaneamente, una funzione di orientamento, in qualche misura pedagogico, dall’alto al basso e dagli esperti ai profani.

 

La politica disintermediata dei talk-show e del digitale

 

Se il trionfalismo della comunicazione avviene nella clamorosa assenza di forme di partecipazione, ne discende che la stessa politica risulta radicalmente disintermediata. Liberati dall’euforia sulle virtù democratiche e sulle capacità di mobilitazione e promozione di cittadinanza, automaticamente attribuite alle piattaforme digitali, occorre chiedersi fino a che punto la rete sia in grado di attivare forme di partecipazione non estemporanea, di diventare costitutiva o almeno significativa rispetto alla formazione dell’identità politica e di sedimentare le issues. Le piattaforme digitali, infatti, sembrano più in grado di produrre rilevanti “fiammate di partecipazione”, che una vera capacità di consolidamento di un processo di socializzazione politica che sappia farsi anche “routine”, e dunque rituali e organizzazione.

 

E allora diventa importante cercare di ricapitolare i nodi che più sono stati in grado di incidere sui risultati, sottoponendosi dunque allo sforzo di selezionare le variabili di impatto. Da quanto abbiamo detto sopra, emerge che il primo problema da chiamare in causa è cosa succede al voto in una società in cui si è fortemente ridotto l’alimento della socializzazione alle istituzioni. La seconda dimensione è quella dell’incapacità della politica tradizionale di allinearsi ai bisogni prorompenti di identità e riconoscimento di un mondo nuovo, che avanza richieste sbrigative e sincopate di legittimazione e gratificazione di istanze dal basso.

 

Qui il lascito della politica si presenta tutt’altro che entusiasmante, al punto che i soggetti che più sono in grado di rappresentare la “gente nova” assumono astutamente sembianze meno partitiche e politiciste (non è certo un caso il fatto che i due vincitori della campagna elettorale non si sono presentati come partiti, ma come forme di rappresentanza sociale). Ne emerge che chiunque abbia avuto la forza di riannodare legami, relazioni significative, prossimità ai bisogni e ai territori anche periferici, mettendo in campo un superamento dell’afonia di messaggi politici, ha offerto così un elemento di contrasto al ripiegamento e all’apatia. A questo occorre aggiungere una nota di particolare merito: le nuove forme politiche hanno probabilmente antagonizzato il rischio che si manifestassero scelte ribelliste e fiammate di antagonismo ispirate dalla diffusa frustrazione sociale.

 

E’ anche con questo tipo di domanda e offerta politica che bisogna fare i conti e le analisi di questi giorni sui profili sociali che rigonfiano i giacimenti elettorali della Lega e 5 stelle indicano chiaramente la fisionomia non di due Italie, come stancamente si sente dire, ma di due società, che rischiosamente pongono una vertenza che può assumere il senso di un sindacato di generazione.

 

Comincia così a emergere quanto le vecchie teorie interpretative delle scelte elettorali siano messe a nudo dalla nuova complessità sociale. Richiamiamole alla memoria, anche perché non si può dire esattamente che esse siano state minimamente aggiornate.

 

La declaratoria partiva, come è noto, dal voto di appartenenza, e tutto sommato esso descrive la sopravvivenza e persino la forza, rispetto a cambiamenti radicali come quelli che abbiamo vissuto, delle forme più tradizionali di rappresentanza politica come il Pd e Forza Italia. Ma fuori da questa coorte, cosa può significare voto di appartenenza per gente che non ha appartenenza, non ha rappresentanza, considera superati stilemi e rituali della politica giudicata quasi come un residuato di un’altra società? Se si dovesse azzardare un’ipotesi semantica nuova, per questi soggetti sociali non identificati (solo perché gli strumenti della ricerca non aggiornano in profondità la propria capacità di classificazione e visualizzazione di mondi nuovi), verrebbe in mente l’epigrafe di voto di appartenenza comunicativa, perché il legame combinatorio tra età, assenza di lavoro e nuova domiciliazione mediale è il digitale che si afferma come trait d’union di tante vite diverse.

 

E’ ora di non accontentarci più di teorie rassicuranti che invocano tempi migliori e improbabili processi di ritorno ai valori del passato

Il secondo elemento di una tassonomia ormai quasi archeologica è invece il cosiddetto voto di scambio. E’ certo impossibile dichiararlo estinto nel nostro tempo, perché in alcuni territori è difficile resistere all’ipotesi che possa aver alimentato i giacimenti elettorali dei nuovi vincitori. E’ vero però che in una società in cui i margini dello scambio di risorse sono stati gravemente amputati dalla crisi, la forza predittiva del voto di scambio va riformulata drasticamente, e comunque ridimensionata, a meno di non intenderlo come uno scambio tra autopercezione di vita e speranze riposte in una soluzione dall’alto.

 

Ma il fulcro principale del ragionamento sulla tassonomia che stiamo osservando riguarda però il voto di opinione: proprio quello che sembrava l’unico in grado di sopravvivere nella modernità. La sontuosità di questa epigrafe alludeva infatti al lascito progressivo dell’aumento di competenze formative e scolastiche che, combinandosi con parametri culturali arrivati a livelli europei, avrebbe finalmente visto ascendere soggetti più colti e partecipi alla vita pubblica. Anche questa profezia generosa, troppo ispirata all’euforia del progetto moderno, ha mostrato la corda sia per la frattura radicale tra distribuzione più alta d’informazione e accesso alle professioni apicali, ma anche sotto il peso di una deriva alla partecipazione alla cosa pubblica, senza considerare la diffusione rozza di un attacco indiscriminato a tutto ciò che somiglia a competenze, esperti o tecnici.

 

Se osserviamo dunque le tre rassicuranti formule che pretendevano di esaurire la lettura del voto non resta molto tra le mani, e mai come oggi possiamo dire che solo un loro radicale aggiornamento potrebbe abbracciare le novità dei comportamenti e delle aspettative leggibili dietro il voto. Ricamando sulle formule, si potrebbe dire che quel che è avvenuto è stato prevalentemente un esercizio di scambio tra radicalismo delle proposte, tendenzialmente controo comunque formulate entro la struttura gridata degli slogan, e una frequentazione comunicativa di canali tradizionali o digitali più in sintonia con i social media: un esplicito progetto dimostrativo di riunirsi intorno a parole d’ordine identitarie sul modello “ve la faccio vedere io”.

 

E’ questo che spiega abbondantemente la cacofonia della campagna elettorale; ed è questo che trova alimentazione nell’aggressività e vacuità di proposte alternative che ha caratterizzato la linguistica primordiale dei talk show, in cui è sembrato che i conduttori adottassero la postura di giustizieri della verità. Più in generale, occorre però porci il problema di uno schieramento di testate giornalistiche ed emittenti radiofoniche e televisive entrate a gamba tesa nella lunghissima campagna elettorale, nell’obiettivo quasi esplicito di legittimare schieramenti e offerte politiche. Quando si studierà sistematicamente questa campagna elettorale, apparirà chiaro l’impatto di queste vere e proprie gazzette che hanno assunto la postura, già nota agli studi (G. Pansa), di quasi-partito, ovviamente in difesa della libertà di informazione…

 

Media schierati e disinformazione: le vestali del terremoto elettorale

 

Occorre, a questo punto, richiamare in causa gli studi classici sui media che hanno spesso mutuato e/o influenzato anche gli assunti della political communication. Essi ci insegnano che lo scambio comunicativo in capo ai media tradizionali, in passato definibile come dinamica fiduciaria potere/società, si fondava sulla teoria two-step-flow e, dunque, esigevano che entrasse in scena quella figura che gli straordinari studi di Lazarsfeld e Katz hanno definito leader di opinione. Ebbene, sono state emittenti e testate che hanno svolto in questa campagna un ruolo supplente di leadership dell’opinione, offrendo dunque un’interpretazione dell’informazione non come un luogo attentamente terzo, entro il binomio potere/società, ma come un soggetto sceso in campo “a favore del cambiamento”. Se a questo si aggiunge il potere interpretativo di concetti mai superati (ed è esattamente per questo che sono classici), come esposizione, percezione e memorizzazione selettiva, ben si comprende quanto questo cambio di posizionamento di testate ed emittenti abbia finito per esercitare un ruolo di facilitazione all’adozione di comportamenti nuovi, lavorando alacremente su un vocabolario di parole e temi che alimentasse una vera e propria messa in scena apparentemente comunicativa. In questo contesto, non sorprende più quanto il tema dell’immigrazione abbia occupato la scena della rete ma anche molti media mainstream, determinando un’epidemia semantica spesso più acuminata del suo stesso uso da parte dei politici.

 

Voto di appartenenza, voto di scambio e voto di opinione non esistono più. Andrebbero radicalmente aggiornati. Ma come?

Dal 29 dicembre al 2 marzo abbiamo assistito più in generale a un flusso continuo di attacchi incrociati tra i partiti e i loro leader, ma se la memoria si fa più precisa, ci si accorge di quanto questo lavoro è stato in realtà preso in carico da programmi televisivi definibili come shock communication, se non altro per il rilevante contributo offerto all’incattivimento della campagna. Non sorprende allora che la razionalità abbia lasciato, più di sempre, il passo all’emotività, fermo restando che nelle campagne elettorali questo trend è sempre compresente. Mai però, come stavolta, l’agguato ai pubblici teso da programmi che sembrano quasi costituzionalizzare il rancore e l’odio si è ammantato di un’informazione che ha troppo spesso rinunciato alla verifica di sostenibilità delle proposte e alla sequenza e credibilità dei discorsi. Quando il clima è così incattivito, i risultati e le benemerenze, sistematicamente difficili da raccontare, risultano inefficaci rispetto alle proposte più sbrigative e gridate. Inciucio, barriere, immigrati, clandestini sono state le parole tormentone delle settimane antecedenti al voto. Se l’uso di aggettivi, verbi, epiteti trasforma in un vero e proprio pubblicitario il soggetto giornalistico o politico che li pronuncia, la loro somma ha irreparabilmente segnato la competizione, spostando l’attenzione dai programmi agli spot. Particolarmente tempestiva è stata in proposito l’analisi effettuata dall’associazione “Parole Ostili”, in collaborazione con Ipsos e Assocompol, in merito alla valutazione che gli elettori hanno dato sul tono e sui linguaggi della campagna elettorale allora in corso. Il Rapporto ha dimostrato una costante crescita dell’indicatore intensità dell’ostilità elaborato all’incrocio tra due variabili: la percezione di un linguaggio insultante da parte dei politici (indice di aggressività) e quella relativa alla diffusione di notizie false o non credibili (indice di falsità). Per cominciare a dare qualche elemento che resterà di questa campagna, anche come caveat per la democrazia italiana, l’aggregazione media di questi due indici ha prodotto un indicatore sintetico di ostilità che nel corso delle settimane antecedenti al voto ha oscillato tra il 69 e il 77 per cento. Certo, questo non basta a dimostrare l’assunto sbrigativo che la campagna sia stata una gigantesca fake, non disgiunta da un alto dosaggio di hate speech. Ma è altrettanto impossibile sottrarsi alla forza di questi termini quando si farà un bilancio della lotta politica messa in scena da una certa comunicazione, soprattutto nel far west sgovernato da una parte della rete che non è riferibile a una responsabilità editoriale. Il futuro dirà di quante fake si è intessuta la campagna, ma viene in ogni caso in mente un bruciante monito che, ben prima dell’indizione delle elezioni italiane, la Commissaria europea per il mercato unico digitale e la società, Mariya Gabriel, ha pronunciato nel disinteresse del nostro ambiente comunicazionale: “è al momento delle elezioni che vediamo quanto possono essere grandi gli effetti di questo fenomeno sugli elettori”.

* Mario Morcellini è Consigliere alla Comunicazione di Sapienza e Commissario Agcom

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