Matteo Renzi con Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

"Quello di Zingaretti è un modello nazionale", ci dice Marco Miccoli

Valerio Valentini

Il 4 marzo nel Lazio il Pd potrebbe ottenere un risultato positivo, in controtendenza rispetto alle previsioni nazionali

Roma. Non è che tiri un’aria poi così diversa da quella che si respira nel resto d’Italia, nel Pd romano. Stesso latente pessimismo, stessa frenetica attesa di quel che sarà dopo. Il partito del 5 marzo, quello che attende l’indomani dell’esito delle elezioni per ridefinire equilibri e rapporti di forza, si muove nella capitale così come altrove. La differenza, però, è che a Roma i giochi sono un po’ più complessi, e dunque più articolate le trame che li accompagnano. Perché il 4 marzo, in città, saranno due i risultati a cui guardare: non soltanto le politiche, ma anche – e forse: soprattutto – le regionali. E solo l’analisi incrociata dei due dati conterà davvero.

  

Lo scenario che in tanti prefigurano è quello di una prestazione tutt’altro che esaltante alle elezioni nazionali, accompagnata invece da una riconferma confortante di Nicola Zingaretti come governatore. E’ questo l’orientamento indicato dai sondaggi; ed è questa, soprattutto, la prospettiva a cui guardano con speranza gli esponenti della sinistra interna: quella mai davvero convinta dal segretario cittadino Andrea Casu, quella umiliata nello sterminio delle liste elettorali stilate da Matteo Renzi. Per Marco Miccoli, però, deputato romano esponente dell’ala orlandiana e soldato fedele di Zingaretti, non è questione di risentimento. “Semmai direi che c’è un precedente importante, che tende a rendere credibile la prospettiva di una vittoria di Nicola in controtendenza col dato nazionale”. Il riferimento è all’aprile del 2008. Quando, nel giro di quindici giorni, il centrosinistra perse prima Palazzo Chigi contro Silvio Berlusconi e poi il Campidoglio contro Gianni Alemanno. “Ma in provincia no”: in provincia, cioè alla provincia di Roma, a trionfare fu proprio Zingaretti, unico successo di una coalizione stremata, celebrato da Fiorello in una formidabile gag su “Vivaradiodue” che riprendeva l’aria della storica sigla di uno dei programmi più famosi di Renzo Arbore: “Anche a Roma è finita, hanno vinto la sfida/ ma in Provincia no…”.

 

Presto, ovviamente, per dire se anche stavolta andrà come nel 2008. Ma in parecchi, nella sinistra democratica, non nascondono che per loro, l’obiettivo vero è proprio quello della Pisana. Al punto che in parecchi, stando a quanto si vocifera nei circoli della capitale, starebbero in verità facendo campagna elettorale solo per Zingaretti. “Non scherziamo”, precisa Miccoli, che del Pd romano è stato segretario. Ma subito aggiunge: “Quello che riscontro è un generale apprezzamento per Nicola, a cui viene riconosciuto di aver governato bene in un contesto difficile”. E però non è solo questo, l’elemento che differenzia la campagna elettorale regionale da quella per le politiche. “Certo, la coalizione larga che Zingaretti ha saputo tenere intorno a sé è espressione di quel centrosinistra plurale che a livello nazionale non siamo riusciti a ricostruire”, osserva Miccoli. Del resto Zingaretti a questo progetto ha lavorato con pazienza e con meticolosità. Aveva visto per tempo che l’alternativa a Renzi, in qualche modo, sarebbe passata dalla sua abilità nel mostrarsi dialogante coi fuoriusciti bersaniani, inclusivo laddove l’altro era “divisivo”: e allora ecco la sua presenza al Brancaccio – teatro incubatore di sinistre mai nate, nello scorso anno – nel marzo scorso, proprio nel giorno in cui Giuliano Pisapia teneva a battesimo il suo Campo progressista; ecco il suo sforzo nel parlare, sempre, anche con la parte più recalcitrante alle alleanze all’interno di Mdp, il suo rispondere con garbo anche agli attacchi più scomposti di chi, come Stefano Fassina, ha cullato per mesi la tentazione dello strappo. E invece in Lazio non sarà come in Lombardia, e non sarà come nel resto d’Italia. L’unione del centrosinistra ci sarà.

 

E anche in virtù di questo, se Zingaretti il 5 marzo si svegliasse di nuovo governatore, nella stessa alba in cui il Pd in Italia si fermasse sotto al 25 per cento, “quel dato sarebbe un segnale”. O meglio, si corregge Miccoli, “quello laziale diventerebbe senz’altro un modello che s’imporrebbe come vincente su scala italiana, specie se la differenza di voti tra la partita nazionale e quella regionale sarà evidente. A quel punto una riflessione seria di dovrà inevitabilmente aprire, e la geografia interna del partito, e del centrosinistra tutto, andrebbe ridefinita”. Scontata, insomma, la promozione sul campo di Zingaretti a leader della minoranza, in danno di un Andrea Orlando uscito con le ossa rotte dalla “notte dei lunghi coltelli” del Nazareno. Ma non solo: nel fuoco incrociato che si aprirà contro Renzi il 5 di marzo, Zingaretti potrebbe puntare ancora più in alto. Anche perché, se davvero – come mostrano i sondaggi – riuscisse a ridimensionare le ambizioni grilline di Roberta Lombardi, a quel punto Zingaretti dimostrerebbe che è la sua, la ricetta giusta per fermare l’avanzata del M5s. “Renzi sta insistendo, del resto, proprio su un Pd che sia argine al populismo dei Cinque stelle”, ragiona Miccoli. Come a dire, insomma, che il voto utile è “quello a Nicola”: sicuramente per il Lazio, e poi, magari, chissà.

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