Il ministro dell'Economia Giancarlo Giogetti - foto Ansa

Tutti i dolori del ministro

I fantasmi di un Giancarlo Giorgetti finalmente meloniano

Luigi Marattin

È il Dario Franceschini della destra: sopravvissuto all’epurazione dei bossiani, divenuto vice di Salvini e infine draghiano. Ma ora che è al Mef difficilmente potrà superare le contraddizioni restando in silenzio. E gli occhi dell'Europa lo giudicheranno

Quando nell’autunno 2022 si trattò di scegliere il ministro dell’Economia del governo Meloni, espressi pubblicamente il desiderio che la scelta ricadesse su Giancarlo Giorgetti. Per un motivo piuttosto semplice. Tradizionalmente, il ruolo del ministro dell’Economia – come quello di ognuno dei 7.920 assessori al bilancio di comuni e regioni – è quello di ricondurre alla dura realtà le audaci promesse e i desideri proibiti dei suoi colleghi, a cominciare dal capo dell’esecutivo. È sempre stato così: Tremonti con Berlusconi, Padoan con Renzi e così via. Ma quando il governo è retto da forze politiche dalla spiccata venatura populista, che hanno raccolto il consenso sparando balle di proporzioni galattiche, il ruolo assume una connotazione più specifica: quello di evitare il default del paese, segnalando esplicitamente che tutto quanto era stato detto in campagna elettorale (o magari, nell’intervista del leader il giorno prima) erano solo pie illusioni, quando non falsità belle e buone.

 

Ecco perché tifavo per Giorgetti: sarebbe stato fin troppo facile, per Meloni e Salvini, schivare la contraddizione e incolpare l’ennesimo tecnico di turno di essere solo un bieco e triste ragioniere sensibile ai sordidi richiami della Grande Finanza Internazionale ma estraneo alla Vera Politica da loro rappresentata. Accusa, questa, che non avrebbero mai potuto rivolgere al vice-segretario federale della Lega, cioè il numero due di Salvini.

 

Con Giorgetti in Via XX Settembre, invece, la contraddizione non avrebbe potuto che esplodere, mettendo di fronte i due leader al bug del sistema: avevano costruito il loro capitale politico nei dieci anni precedenti attraverso un mucchio di fregnacce populiste che gli italiani si erano bevuti un po’ per necessità, e un po’ per demerito degli avversari. E la contraddizione, strisciante e sopita (in pieno stile Giorgetti) per circa un anno, è deflagrata in tutta la sua potenza in occasione della vicenda Mes. Dove l’Italia e l’Europa hanno dovuto assistere all’esilarante spettacolo di un ministro dell’Economia che dichiara che lui, se avesse potuto, l’avrebbe pure approvato sto benedetto Mes. Ma poi la politica (?!) non ha potuto che decidere diversamente, perché – sai com’è, signò – Conte aveva richiesto il giurì d’onore della Camera su una dichiarazione della Meloni.

 

In preda a cotal afflato, nell’immediatezza dell’evento il prode Giorgetti si è pure esibito in altre due performance analoghe, passate però del tutto inosservate. Prima, a fronte della domanda del sottoscritto in commissione Bilancio, quando ha detto che lui era ferocemente contrario al depotenziamento della riforma del “bilancio tecnico” degli enti locali, però – signò, la vita è dura – altri hanno deciso così. E poi alla Camera, quando faceva ampi segni di approvazione al discorso di Della Vedova, che tuonava a favore di concorrenza su tassisti, ambulanti e balneari. Ma ben altre sono le sfide che attendono il ministro Giorgetti in questa legislatura. Occasioni in cui la contraddizione di cui sopra non potrà che continuare a bruciare con nuovo e incendiario carburante. Passiamole velocemente in rassegna.

Il nuovo Patto di Stabilità

Autorevoli esponenti del governo Meloni (come il vice-premier Tajani e il ministro Crosetto) hanno affermato in più occasioni che l’accordo raggiunto a Bruxelles prevede lo scorporo della spesa per interessi e delle spese per la difesa dal calcolo del deficit. Mezzo governo e tre quarti del Parlamento (assieme a quasi la totalità dei media) sembrano essere convinti di questa che, però, altro non è che una colossale balla, come il ministro Giorgetti ha confermato a denti stretti in commissione Bilancio, su domanda del sottoscritto. Il ministro però, nell’intervista del 31 dicembre al Sole 24 Ore, sembra aver trovato un’altra leggenda con cui rassicurare i suoi colleghi di governo: il solo fatto di avere il Pnrr, ha detto al quotidiano confindustriale, ci assicura l’automatico allungamento da quattro a sette anni del periodo di aggiustamento fiscale. Peccato che l’art. 38bis del Regolamento sul braccio preventivo dica altro: del Pnrr si terrà sicuramente conto, ma solo a condizione che “i piani contengano significative riforme e investimenti mirati all’obiettivo di migliorare la sostenibilità fiscale e accrescere il potenziale di crescita dell’economia e a condizione che lo stato membro si impegni a continuare lo sforzo di riforma anche oltre il Pnrr, e a mantenere il livello di investimenti pubblici realizzati in media durante il Pnrr”. Insomma, presto per Giorgetti verrà il momento di dire ai suoi colleghi che ciò che nelle ultime settimane hanno spacciato all’opinione pubblica come “vittorie dell’Italia” nella disfida contro la perfida austerità di Bruxelles esiste solo nella loro testa.

 

Il fisco meloniano

Sempre nell’intervista al Sole 24 Ore, Giorgetti chiarisce con inusitata franchezza un’altra scomoda verità per i suoi principali: la conferma dell’attuale livello di pressione sia contributiva che fiscale per i redditi bassi non potrà che avvenire attraverso l’incremento della tassazione sui contribuenti con redditi sopra i 50 mila euro annui. Per essere chiari, nei confronti quindi di chi si porta a casa più o meno 2.500 euro netti. Identificati evidentemente – in un cerchio che congiunge Meloni e Salvini con Landini e Speranza – come i nababbi italiani. Peccato che l’intera storia politica della Lega salviniana e del partito meloniano si sia basata sul rifiuto dell’idea di “dare con una mano e togliere con l’altra”, pretendendo che la tassazione possa diminuire di decine di miliardi di euro senza alzare neanche di mezzo centesimo l’ultima delle accise sugli oli minerali. E pensare che qui non si tratta neanche di alzare le tasse a qualcuno per abbassarle ad altri: ma semplicemente di alzarle a qualcuno per confermare ad altri lo stesso livello che hanno ora.

 

Il deficit e il debito non esistono

Sia in commissione Bilancio (quella delle “allucinazioni da debito”) che sulla solita intervista al Sole 24 Ore, Giancarlo Giorgetti si è lanciato in una requisitoria contro il debito pubblico da far impallidire sia la buon’anima di Wolfgang Schäuble che i più rigidi tra gli economisti finlandesi o olandesi. Nelle stesse ore, il suo compagno di partito Claudio Borghi twittava che “il deficit non lo paga nessuno: aumenta il debito pubblico che viene sottoscritto dal risparmio privato, che a sua volta cresce proprio perché c’è più deficit”. Persino in un paese come l’Italia frasi del genere vengono normalmente derubricate a qualcosa di poco meno che una barzelletta. Ma il punto è che tali posizioni rappresentano la linea ufficiale della Lega, come ribadita costantemente sia dal responsabile economico Alberto Bagnai che dallo stesso segretario Salvini. La cui colpa storica – tra le tante – rimarrà per sempre quella di aver, tramite il reclutamento della fedele coppia, elevato a dignità politica colossali panzane da terrapiattisti economici. Dalle parti di FdI non va molto meglio, da Fazzolari in poi. Quindi rimane un mistero come Giorgetti, nella parte restante della legislatura, riuscirà a conciliare la posizione che egli (correttamente) esprime con quella (diametralmente opposta) del suo segretario di partito, del suo responsabile economico e in tutta probabilità  dei piani alti del governo.

 

 

Pensioni

Oltre al deficit libero para todos, l’altra grande battaglia economica con cui la Lega salviniana ha costruito il suo capitale politico è l’abolizione della Legge Fornero. Giorgetti è riuscito a far derubricare a un’alzata di sopracciglio di qualche volenteroso quotidiano come Il Foglio il fatto di aver scritto una legge di Bilancio che rende molto più severa la legge Fornero, dopo averne tra l’altro esplicitamente tessuto le lodi nella Nadef di fine settembre. Ma cionondimeno, addirittura i leghisti più moderati come il sottosegretario Freni (per non parlare del mitico Durigon e dello stesso Salvini) continuano a ripetere che l’abolizione della Fornero rimane l’obiettivo di legislatura. Di quale legislatura, dovranno spiegarlo al loro compagno di partito Giancarlo.

 

 

Il sentiero di finanza pubblica

Tutte le analisi nazionali e internazionali concordano che per mettere il nostro debito/pil su un sentiero sufficientemente discendente – date le attuali ipotesi su costo medio del debito e crescita nominale – servirà raggiungere nei prossimi anni un avanzo primario che varia dai due ai tre punti di pil. L’attuale previsione per il 2024 è un disavanzo di due decimali di punto, che però sarà rivisto in sostanziale peggioramento visto che le previsioni di crescita per il 2024 sono esattamente la metà di quelle su cui il governo si era basato.

 

Stiamo quindi dicendo che, prevedibilmente da qui a fine legislatura, il governo Meloni dovrà tagliare le spese (senza considerare gli interessi) o aumentare le entrate di una cifra ragionevolmente in un intorno dei 50 miliardi di euro rispetto all’anno che sta iniziando. Come potrà riuscirci una coalizione che da sempre promesse l’esatto opposto, lo vedremo prossimamente su questi schermi.

 

 

Va sicuramento riconosciuto a Giorgetti di avere un carattere splendido. Sono davvero in pochi a riuscire a farsi scivolare addosso praticamente ogni cosa senza mai scalfire quell’aria un po’ bohémien e un po’ menefreghista, a metà tra chi ama lasciare a verbale la sua opinione giusto perché proprio deve e chi in fondo non desidera nulla di più di essere lasciato in pace sulle sponde del lago di Varese. In fondo, stiamo parlando della risposta della destra a Dario Franceschini: è sopravvissuto alla rottamazione salviniana della stagione bossiana (lui che dell’Umberto era il più fedele scudiero) diventando l’eterno numero 2 del nuovo corso; è rimasto, con le lacrime agli occhi, ad applaudire Mario Draghi nel suo addio al Parlamento essendo il vice-segretario del partito che l’aveva silurato qualche ora prima; ha lamentato di avere “mal di pancia” quando pensa al Superbonus, avendo avallato centinaia di emendamenti leghisti che quel bonus lo rafforzavano e prorogavano.

 

Adesso, però, lo aspetta la sfida più difficile: dal Mes in poi, non gli sarà più consentito di navigare al riparo della luce, e di “troncare e sopire” al chiuso delle stanze, di pattinare tra dichiarazione a mezza bocca e qualche sorriso sornione. Ma dovrà affrontare i suoi fantasmi a viso aperto, e sotto gli occhi di un’Italia e di un’Europa che lo osservano. E che, stavolta, lo giudicheranno