Virginia Raggi, posseduta sin dall’inizio della Dictablanda da una disposizione bellica contro chi violasse la quarantena, ha schierato pattuglie di vigili e droni (foto LaPresse)

I reucci del coronavirus

Francesco Palmieri

Quelli che si sono un po' montati la testa. Dalla sindaca Raggi al governatore della Campania fino a Musumeci. Come l’emergenza della pandemia è scivolata lentamente in un linguaggio da questurino o da cabaret

Fu con ragionevole certezza la sciantosa trasteverina Maria Campi, protagonista della celebre canzone Ninì Tirabusciò, a inventare il numero che avrebbe sedotto il pubblico dei migliori café chantant: la “mossa”, il colpo d’anca che durante le serate, anche meno riuscite, strappava un fragoroso applauso e qualche volta l’entusiasmo alla platea. Attesa dalla sala, sovente reclamata se tardava ad arrivare, la “mossa” fu sempre collocata al punto giusto – è nel tempismo il genio dell’artista – cioè un istante prima che la performance destasse lo sbadiglio o un attimo dopo l’imprudenza di una stecca, scongiurando i fischi. Sommati all’intuito della sciantosa alcuni scaffali di vecchi classici degli Editori Riuniti, quelli con copertina bianca e palla rossa, e contaminata l’esperienza dei palchi comiziali di provincia con una consumata avvedutezza amministrativa, il governatore della Campania Vincenzo De Luca piazza le sue battute come Ninì Tirabusciò sfoderava la “mossa”. Sia che il suo mot d’esprit appaia pensato sul momento, sia che all’opposto risulti agognato, alla fine sovrasterà il discorso restando il dettaglio più ricordato. Com’era per la “mossa” rispetto alle stonature o alle cosce storte del corpo di ballo.


E’ nei momenti straordinari che risaltano difetti, caratteri e talenti sostenuti da un’emergenza emotiva per cui s’accetta l’inaccettabile


 

E’ nei momenti straordinari che risaltano difetti, caratteri e talenti sostenuti da un’emergenza emotiva per cui s’accetta l’inaccettabile: dal confinamento in casa all’uscita col lasciapassare, dalla sospensione del lavoro al fermo del campionato di calcio, dalla fila per il pane alla distanza minima di cinque spanne imposta non agli scandinavi, ma a una popolazione che parlando gesticola e si tocca. Quando diventa, più che reato, trasgressione morale la messa in piega, e se il croissant farcito è proibito; quando la prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita vengono sospesi oltretutto dalla riprovazione sociale, allora è il tempo inconfutabile della Dictablanda.

 

Non arrivano, a interdire parrucchiere e cornetto, le squadre speciali istituite in Cina con i maxi-retini da farfalle per catturare il trasgressore. Spunta piuttosto il genitore governante severo ma giusto, che pro bono patriae interdice o consente in forza d’emergenza, al cospetto di un nemico infido e collettivo per cui s’invoca il sacrificio purché appaia più condiviso che imposto. “Esta nunca ha sido dictadura, señores, esta es dictablanda”, sbottò una volta il generale Augusto Pinochet consegnando alla storia cilena (e non solo) una delle sue più memorabili frasi, attinta alle vicende costituzionali della Spagna anni Trenta cui rimonta il conio della definizione. E’ in queste fasi assimilabili ai tornanti stradali, allo starnuto nella piega del gomito, a un moto spiraliforme degli eventi che sbrilluccicano col favor noctis dell’“ora più buia” talune individualità. Non è sulla legge ordinaria ma in punta d’atti amministrativi, sull’impudenza giuridica di editti in guisa di ordinanze e su contorte circolari interpretative che s’inastano, come baionette alle carabine, le frasi a effetto, le irruenti coloriture e certi minatori sorrisi paternalistici. Una scenografia perfetta per il governatore De Luca, già politicamente appannato malgrado il popolare bollino delle imitazioni di Crozza, di cui tuttavia non ha più bisogno. Nella primavera emergenziale del coronavirus, la notorietà della sua eloquenza è ascesa da La7 al plauso di Naomi Campbell, dalla tradizione della gag scarpettiana alla traduzione in inglese a beneficio planetario del web. I carabinieri col lanciafiamme alle feste di laurea, i runner cinghialoni che andrebbero arrestati in flagranza di corsa, Fazio il fratacchione, la paventata chiusura dei “confini” campani sono alcune tra le sue frasi a effetto. Sicché la “mossa” della sciantosa esperta non la rende più soltanto diva del Salone Margherita, ma dell’audience internazionale alle Folies Bergère. Mai la lieve balbuzie di un Antonio Bassolino né il piglio scabro del sindaco Luigi de Magistris potrebbero competere, on the stage, col professor De Luca.


La sindaca Raggi ha sfoderato un furor operativo che non aveva mai sfogato nei rifacimenti stradali e nella cura dei parchi


 

Come s’è sperimentato, sbaglierebbe chi attribuisse a un solo volto, o a un’unica attitudine retorica, la titolarità della Dictablanda: nella trasposizione nostrana, sostituita con le pochette la rigidezza in uniforme di Pinochet, s’è presentata sotto forma di drammaturgia a più voci fomentata da una grandinata di dpcm. Tutti giustificati da quella definizione churchilliana dell’“ora più buia”, consunta ma la cui fortuna ha talmente allontanato la formula dall’autore da renderla spendibile per qualsiasi emergenza secondo innumerevoli varianti. “Hay que tomar conciencia de la gravedad de la hora” piacque, per esempio, al generale Jorge Rafael Videla (la “sovversione” oscurava il suo cielo, il “comunismo” quello di Pinochet, il coronavirus il nostro).

 

Di esposizione più misurata nei toni ma non meno sanguigna nella sostanza, a caccia più dell’affetto degli elettori che dell’effetto della battuta, il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, ha usato la mano pesante per preservare l’isola dal contagio. “La chiudo”: come fosse una porta. E l’ha chiusa. Con traghetti, treni e aerei ridotti al minimo indispensabile, col dispiegamento dei forestali a guardia della porta messinese, il colonnello Nello non ha risparmiato ordinanze, provvedimenti, fendenti di cui è ricordevole, in deroga all’abituale sobrietà del suo gesto, la sprezzatura delle mascherine sanitarie ricevute a marzo dalla Protezione Civile. Laddove De Luca (“vulimmo ‘a mossa!”) le etichettò adatte per il travestimento da Bugs Bunny, Musumeci ne gettò via una in diretta tv dopo averla qualificata come straccio buono per la polvere. Con albagia da Principe di Lampedusa.

 

Con le buone o le cattive, il colonnello Nello – tutt’altra formazione da De Luca, anzi opposta: le fila del Movimento sociale italiano – è riuscito a far sì che i siciliani restassero chiusi in casa a riparare bambole durante la quarantena. E, malgrado suppliche e moccoli, ha impedito che i corregionari rimasti bloccati nelle altre contrade d’Italia facessero ritorno prima del tempo – magari con il dono del contagio. Lo ha rischiato lui dal leader del Pd, Nicola Zingaretti, che all’indomani di un loro incontro a Roma annunciò di essere positivo al coronavirus causa la mondanità zuzzurellona della #Milanononsiferma, prima che “l’ora più buia” oscurasse Lombardia e Penisola. Isolatosi a domicilio, Musumeci – col suo assessore alla Salute nonché delfino, Ruggero Razza – ha tenuto duro fino al 4 maggio scorso, quando ha concesso una graduale riapertura e il ricongiungimento dei siciliani bloccati altrove alle rispettive famiglie (ne sono già tornati più di duemila). Perché sì, “bisogna un po’ allargare la maglia”. Ma intanto ha messo i nuovi arrivati in quarantena perché “nessuno deve pensare che la fase 2 significhi tutti liberi”, ha precisato mutuando uno slogan divenuto ‘parola di passo’ della Dictablanda dopo le strette del lockdown.


Una scenografia perfetta per il governatore De Luca, già politicamente appannato malgrado le imitazioni di Crozza


 

Più pacato di De Luca (e inoltre non intenzionato a ricandidarsi alla presidenza regionale), il colonnello Nello ha lanciato nell’ultimo appello un messaggio che i cultori di Verdone tradurrebbero nella famosa frase di Mario Brega camionista dopo l’iniezione a Sora Lella: “’Sta mano pò esse fero e pò esse piuma: oggi è stata ’na piuma”. Ossia, ma detto con l’aplomb di Musumeci: “Io sono dalla vostra parte, vorrei che anche voi foste dalla mia per trovare assieme il giusto punto di equilibrio”. E guai a chi lo infrange perché – come proseguiva la frase pinochettiana di più sopra – “si es necesario vamos a tener que apretar la mano”. La presa si può sempre stringere se voi non fate i bravi. Con meno aplomb di Musumeci, al tempo della Dictablanda virgolettava a tutta prima pagina il Corriere della Sera del 18 marzo scorso: “Troppi in giro, li puniremo”, desumendo l’eccesso di movimento dai dati delle celle telefoniche. Il virgolettato della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha seminato da allora nel cuore degli ingenui (che forse, a differenza degli ignoranti, sono ammessi dalla legge) un dubbio irrisolto circa l’ammissibilità di “punizioni” oltre l’ambito disciplinare interno a una pubblica amministrazione oppure quello sportivo o religioso (scartando per buon senso ceffoni, bacchettate e orecchie d’asino).

 

E’ questo il clima, ben più vicino a Mario Brega che agli estremi sudamericani, in cui s’è mossa la sindaca di Roma. Virginia Raggi, posseduta sin dall’inizio della Dictablanda da una disposizione bellica contro chi violasse la quarantena, ha schierato pattuglie di vigili e droni nell’immenso cielo del territorio metropolitano. Decine d’anni di politica in meno, e qualche centinaio di libri mancanti rispetto a De Luca o a Musumeci, hanno animato lei con uno stile da sceriffo assai più rozzo. L’apertura del Sus (come sussurro, acronimo di Servizio unico segnalazione), cioè un ufficio delazioni contro gli “assembramenti” dei presunti untori del virus, non poteva passare per la mente a un missino siciliano cresciuto seguendo Giorgio Almirante. Non poteva passare per la mente a uno stagionato comunista campano, benché disceso da una genealogia di stalinisti locali che ebbe a campione il dispotico Salvatore Cacciapuoti. Doveva invece passare per la testa a una grillina e chissà i riscontri che i cittadini le hanno riversato nelle orecchie (sulla cui ampiezza lei scherza ogni tanto). Dall’incarnato cereo, tipico di chi ha trascorso molto tempo dentro i mezzanini che nei vasti studi legali in zona Prati separano l’archivio dal vano fotocopiatrice, dall’espressione quasi mansueta, la Raggi ha sfoderato un furor operativo che non aveva mai sfogato nei rifacimenti stradali, nell’efficienza dei collegamenti, nella cura dei parchi o nella raccolta dei rifiuti urbani.

 

Virginia ha rincorso podisti con dozzine di uomini della Municipale cui prima avrà rivolto, a giudicare dallo zelo, un’adlocutio stile Al Pacino in Ogni maledetta domenica. Cerea ma giusta, nelle comunicazioni via Twitter ha minacciato il popolo romano dei “furbetti” che li avrebbe “beccati” o “pizzicati”, con un lessico spigliato da questura anni Settanta, quelle atmosfere alla Elio Petri tipo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto che però non si capisce – stante il suo background civilistico – chi le abbia riversato nelle orecchie. Riflettendo s’intuisce tuttavia che il “beccare” e “pizzicare”, a Roma, è più probabilmente farina scesa dal sacco di certe fidanzate (con “zeta” a pronuncia sonora) quando intimano al partner di non fare il cascamorto con qualcun’altra. Più che di polizia, è il lessico di Enza la “coatta”, che ammonisce a “nun fa’ lo stronzo” il marito Moreno Vecchiarutti invaghito di una bionda in Grande, grosso e…Verdone.


Pure il colonnello Musumeci, ha usato la mano pesante per preservare l’isola dal contagio. “La chiudo”: come fosse una porta. E l’ha chiusa 


Ossessionata dal trasporto alternativo e sostenibile, e dall’incapacità di un decente trasporto ordinario (nel fatidico 4 maggio d’esordio della fase 2 il trenino Roma-Lido è andato subito in tilt), la sindaca sta propugnando l’impiego diffuso di bici e monopattini elettrici, con prevedibile sconcerto di una lavoratrice media che non prenderà il Covid-19 ma rischierà ictus, infarto o le fratture multiple per guadagnare il centro di Roma dal Nuovo Salario, dal Laurentino o da via dell’Acqua Bullicante.

 

L’imperativo della Dictablanda, esteso dalle ultime Faq sul lasciapassare persino al merito delle relazioni affettive, si travasa nei verbi concedere e consentire: per esempio, la “concessione” del ritorno nei parchi condizionata dalla sindaca a comportamenti “meritevoli”. Ma ormai è stata abbandonata ai giuristi e alla polemica politica la materia delle libertà, dove un tempo sarebbero intervenuti un Salce, un Monicelli, a sfornare pellicole come Il federale o Vogliamo i colonnelli (di cui lo stesso colonnello Nello avrebbe riso). O sarebbe bastata una battuta di Massimo Troisi per ridare a De Luca quel che è di De Luca e ai comici ciò che è dei comici. Riguardo al monopattino, più che il responso di una commissione alla sindaca Raggi manca la risposta che le porgerebbe Aldo Fabrizi magari nello sketch del tramviere. (Invece lo specialista della “carta bianca”, compresi gli usi che ne reclamano gli stati emergenziali, resta Totò che ne suggerirebbe l’ulteriore e più noto).

 

Se infine questo maledetto virus fosse umanizzabile, e un poeta come Trilussa l’avrebbe umanizzato, gli si metterebbero addosso nell’auspicato giorno dell’addio i panni di Meo del Cacchio e del suo dettagliato Testamento. Ove si legge – a nome del de cuius

 

A Tizzio, a Caio e a tutti queli fessi

rimasti sconosciuti fin’a quanno

nun so’ arivati a un posto de commanno

je lascio er gusto d’ubbidì a se stessi:

così a la fine de la pantomima

ritorneranno fessi come prima.