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Contro la dittatura della precauzione

David Carretta

Convivere con il virus o smettere di vivere per il virus? Una riflessione

Bruxelles. Dal mese di marzo decine di migliaia di persone in Europa muoiono senza che un marito, una moglie o un figlio possa tenere loro la mano. Migliaia di malati di tumore non possono più proseguire le cure contro il cancro. Migliaia di donne vengono picchiate in casa senza poter sfuggire alle botte almeno durante l’orario di lavoro. Milioni di persone abusano di alcol e droghe per compensare la fatica dello smart working, quella di supplire alla scuola per istruire i figli e quella della clausura sociale. Milioni di bambini sono privati del diritto fondamentale all’istruzione e di quello alla luce del sole. Milioni di persone hanno perso il lavoro e altri milioni lo perderanno nei prossimi mesi. Questi sono solo alcuni degli effetti dell’isolamento generale della popolazione, la politica scelta da gran parte dei paesi dell’Unione europea per fronteggiare il coronavirus ed evitare il rischio di centinaia di migliaia di morti, forse milioni. Ma quanti morti in più non si sono calcolati per non correre il rischio?

 

Il rischio sulla base dei costi-benefici è sempre stato uno dei motori delle società liberali occidentali. Chiusa la prima fase dell’emergenza sanitaria, un dibattito su cosa si può fare meglio, quali rischi siamo disposti a affrontare e a quale prezzo è più indispensabile che mai. Perché in previsione della probabile seconda ondata della pandemia ci troveremo di fronte al trade-off che finora non abbiamo voluto affrontare: convivere con il virus o smettere di vivere per paura del virus. 

   

Sono trascorsi due mesi dalla decisione dell’Italia di imporre il lockdown, innescando una reazione a catena negli altri paesi europei. Una decisione adottata nel panico, che non ha precedenti per una democrazia, ispirata da un regime totalitario, la Cina, che disprezza tutto ciò che caratterizza l’occidente liberale: i diritti dell’uomo, le libertà fondamentali, la felicità dei propri cittadini. Ma il dibattito sull’efficacia della politica del lockdown e sui suoi effetti collaterali è ancora vietato: discutere singole misure o l’intera strategia significa mancare di rispetto ai morti, agli eroi in prima linea, al governo che lavora giorno e notte, al “sacrificio” collettivo. “Una vita umana non può valere un dibattito sui costi del lockdown”, ci dicono.

   

In realtà, nel momento in cui inizia l’allentamento delle regole del lockdown, è più necessario che mai fare i conti con i “trade-off” di questa pandemia, che vanno ben oltre l’impatto economico devastante della decisione di sospendere ogni attività non essenziale. Il principio di precauzione che ha ispirato la risposta dei governi europei, la negazione della morte come parte della vita, il paternalismo verso i cittadini, l’improvvisazione e l’incompetenza dei governi hanno conseguenze enormi su ciò che dovrebbero preservare: la vita, la sua qualità, la libertà, la democrazia e il futuro di tutti.

 

“Siamo in guerra” e “lo dicono gli esperti” sono frasi ricorrenti tra i leader europei, che non sembrano accorgersi degli effetti nefasti sulla democrazia. La guerra giustifica le leggi emergenziali e la sospensione di diritti fondamentali. Al contempo gran parte dei governi si nasconde dietro al parere di esperti, malgrado il fatto che i tecnici abbiano una visione concentrata sul loro settore e tendano a sottovalutare le ripercussioni sugli altri. Gli stati, tornati padroni assoluti in seguito all’emergenza, abdicano alla responsabilità di fare scelte sulla base di costi-benefici per l’interesse generale. A dominare è un principio di precauzione immediato e assoluto. Ma portandolo al suo parossismo, di fatto, lo si nega. Nell’inverno 2017-18 la Germania aveva registrato 25 mila decessi legati a un’epidemia di influenza, ma nessuno ha mai pensato di chiudere le scuole. In Europa ogni anno ci sono 25 mila vittime di incidenti stradali, ma nessuno si è immaginato di vietare le auto. Il Covid-19, invece, prevale su tutti gli altri rischi economici, sanitari, sociali, collettivi e individuali, di medio e lungo periodo. Compreso il rischio di ribaltare la cultura della vita. Rifiutando la possibilità della morte per il virus, ci facciamo dominare da una paura mortifera e rinunciamo a vivere umanamente. Così migliaia di persone muoiono in un reparto di terapia intensiva o in una casa di riposo, in solitudine, senza la mano di un familiare. Si disumanizza la fine della vita. Se alla Cina va bene così, nell’occidente liberale possiamo permetterci i rischi e i costi di restare umani.

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