La Cina, lo spionaggio, i gialloverdi. La versione di Michele Geraci

L’ex sottosegretario del Mise a colloquio con il Foglio dice che rifarebbe tutto. E le arance sono importantissime

Giulia Pompili

Roma. Michele Geraci, perché tutti dicono che lei lavora per il governo cinese? “Chiediamolo a tutti”. Ride, l’ormai ex sottosegretario allo Sviluppo economico con deleghe al commercio estero, il cosiddetto “China man” del governo gialloverde. Non si scompone mai, nemmeno quando gli chiediamo conto dei suoi rapporti con la Cina, dei dubbi sollevati da molti, sulla stampa ma pure all’interno del “governo del cambiamento”. Geraci, però è vero che parla sempre di Cina: “Ma siete voi che scrivete sempre di Cina”. E’ il nostro lavoro, lei ne ha scritto perfino sul blog di Beppe Grillo, prima di arrivare al governo da leghista. In un lungo articolo spiegava perché dovremmo prendere a modello il sistema cinese, per esempio sulla “sicurezza pubblica”. Ma lì il governo controlla tutti, la gente sparisce, lo stato di diritto è quello di un regime, come possiamo prenderlo a modello? “Non ho detto che la Cina è un modello ma dalla Cina possiamo imparare qualcosa”. Che è un po’ la stessa cosa. “Lei va al ristorante cinese?”. Come tutti. “Ecco, pensi al tavolo che gira, i piatti girano e ognuno prende solo quello che gli piace”.

   

Dei rapporti tra il governo gialloverde e la Cina si è parlato soprattutto a marzo, durante la visita del presidente Xi Jinping in Italia, quando l’ex vicepremier ed ex ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio ha firmato l’accordo con il quale ha aderito al progetto della Via della Seta cinese. Il primo paese del G7 a farlo, nonostante le critiche del dipartimento di stato americano. In quei giorni si parlava soprattutto di Geraci, “il cinese”, il più attivo su quel fronte. Classe 1966, laureato in Ingegneria elettronica all’Università di Palermo, ha vissuto a Londra e poi si è trasferito a Pechino nel 2008. Grazie a qualche conoscenza in comune, nel 2018 è arrivato a Matteo Salvini ed è entrato nella Lega come “esperto di mercati esteri”. Poi, durante l’esperienza di governo, è sembrato avvicinarsi ai Cinque stelle – “una fake news, come vi è potuto venire in mente”, dice Geraci. Con Luigi Di Maio, ora ministro degli Esteri, che rapporto ha? “Ho lavorato a stretto contatto con Di Maio e sono stato chiamato da Matteo Salvini, quindi lato Lega. Ero un po’ tra i due vicepremier. Con Di Maio ho avuto un’ottima intesa, siamo andati in Cina assieme, l’ho introdotto io al sistema Cina”. E con Salvini? Lui ha parlato spesso male della Cina, dice che prima di firmare un “accordo con un regime” bisogna pensarci mille volte: “E’ preoccupato per la sicurezza nazionale, io per il commercio. Ognuno fa il suo mestiere, e magari enfatizza”. Però lui è il suo capo politico: “Ma infatti senza la sua approvazione l’accordo con la Cina non l’avremmo fatto, mi avrebbe chiamato alle tre di notte per dirmi: Michele fermati. Abbiamo lavorato con il sottosegretario Giorgetti e ognuno di noi tre si preoccupava di un aspetto diverso dell’accordo”.

   

In ogni caso l’apertura a oriente non l’ha inventata lei, era un percorso già intrapreso dai governi precedenti, quello Gentiloni, per esempio. Il memorandum con cui l’Italia ha aderito alla Via della Seta cinese, infatti, “non è nato con me, è stato accelerato con me. Non è che ci siamo svegliati ed è arrivato l’accordo. D’altra parte l’Italia è il paese che fa meno affari con la Cina di tutti i nostri partner europei”. E con quella firma è cambiato qualcosa? Faccia qualche esempio: “Tre voli diretti da Fiumicino, per Hangzhou, Shenzhen e Chengdu…”. Ma anche quelli erano negoziati preesistenti: “Però il giorno che abbiamo firmato il memorandum – Geraci fa schioccare le dita – si è sbloccato. Poi come sa il presidente Xi Jinping è venuto nella mia cara Palermo, e subito dopo abbiamo avuto interesse da operatori turistici”. Anche questo però succede sempre, dove vanno i presidenti poi si intensifica il turismo. Che bisogno c’era di firmare un accordo politico con Pechino? “Non è un accordo politico. Noi possiamo fare indipendentemente solo la promozione, perché la politica commerciale va fatta coordinandosi con l’Ue”. Per noi è promozione, ma per la Cina è propaganda: “Loro fanno giustamente i loro interessi, noi facciamo quelli delle aziende italiane. Sa quante critiche ho avuto da aziende italiane per aver firmato il memorandum?”. Nessuna dai coltivatori di arance siciliane. “Forse non sa che sulle arance abbiamo costruito tutto un sistema di agroalimentare, di turismo, c’è anche una parte culturale sul fatto che le arance sono rosse, gialle, che sono due colori importanti. Il marketing si sviluppa nel tempo: le nostre arance sono un Cavallo di Troia che entra nell’immaginario dei consumatori cinesi”. Ma di fatto ci sono solo quelle: “Le arance e le carni”, dice Geraci. E valeva la pena firmare un accordo così importante soltanto per loro? Francia e Germania fanno affari più importanti con la Cina senza aderire alla Via della Seta. “La direzione di casualità è inversa in questa logica. Le arance non sono il risultato dell’accordo. Le arance sono la causa dell’accordo”.

    

Da quel che ci risulta, alla fine il memorandum è stato firmato perché la Cina ha minacciato di annullare la visita di stato del presidente Xi Jinping a Roma. “Mah, a me non han detto nulla. Certo, se uno non fa l’accordo il giorno prima… Ma non è mai stato messo in discussione”. Eppure i cinesi hanno negoziato fino all’ultimo al Mise: “Ma tutti abbiamo fino all’ultimo negoziato. Pure io non l’ho dato per certo l’accordo fino alla fine”. Ha appena detto il contrario. “Stavamo rifinendo i dettagli”. Perché avete diffuso il testo dell’accordo soltanto dopo la sua firma, a cose fatte? “Sennò voi che avreste scritto per un mese?”. Avremmo chiesto conto di alcune cose, per esempio della parola “telecomunicazioni” che non sarebbe dovuta comparire tra i settori di cooperazione con la Cina, e invece c’è: “Ma possiamo discuterne ancora”, dice Geraci, “il memorandum non obbliga nessuno a fare nulla”. Però ci espone nei rapporti internazionali: “Dopo averlo letto bene, alcuni paesi europei ci hanno fatto i complimenti, perché abbiamo portato la Cina su standard vicini a quelli occidentali, un lavoro che getta le basi per altri possibili firmatari”. Eppure il Lussemburgo e la Svizzera, che hanno aderito alla Via della Seta dopo di noi, hanno fatto accordi “più deboli”, ammette Geraci.

    

E’ vero che ha imposto ai suoi collaboratori al ministero l’uso di WeChat, l’applicazione di messaggistica cinese accusata di spionaggio a favore del governo di Pechino? “Lo usiamo e spero che lo usino anche altri perché è funzionale per dire dove sei, cosa fai. Le cose importanti non vengono discusse lì”. Quindi anche lei ha dei dubbi sulla sicurezza di WeChat. “Non dubbi, ho certezze. Nel mondo tecnologico di oggi non c’è privacy. Siamo esposti alle intercettazioni di tutti”. Perché allora non avete riconvertito subito il decreto legge sul golden power? Anche le aziende di telecomunicazioni cinesi Huawei e Zte sono accusate di spionaggio. “Guardi, noi mettiamo la sicurezza nazionale in primis. Sono benvenuti tutti gli investimenti che non sono critici per la sicurezza”. Appunto, l’America dice che sono pericolose: “Vabbè ma questa non è mia competenza”, dice Geraci, “se facciamo un discorso economico, consulenti ingegneri mi suggeriscono che Huawei ha qualità superiore e prezzo minore”. Ma se arrivasse la prova da Washington che le aziende cinesi sono una minaccia per la sicurezza nazionale? “Allora non gli sarebbe concesso di operare. La sicurezza domina sul fattore economico”. Eppure il decreto legge sul golden power non l’avete riconvertito: “Ripeto, non è mia competenza, sulla parte legislativa ho lasciato fare agli altri”. E invece l’altro golden power, quello europeo sugli investimenti dall’estero, a quello vi siete opposti. “Perché è fuffa, non serve a niente”.

  

Che ne pensa delle proteste a Hong Kong? “Sono questioni di politica estera”. Ma la legge sull’estradizione a cui si oppone la popolazione riguarda anche i nostri imprenditori: “Ma è stata ritirata, no?”. Sì, ma se ci fosse una legge sull’estradizione a Hong Kong spingerebbe i nostri imprenditori a investire? “Beh… a quel punto bisognerebbe coordinarsi. Comunque non sono più al governo”.

 

C’è qualcosa che non rifarebbe, pensando a quest’anno da sottosegretario? “Altro che memorandum, ne firmerei dieci. Sono pagato – poco – anzi non più, per aiutare le aziende italiane che vogliono esportare in tutti i paesi del mondo, e continuerò a farlo”. Quindi sta aprendo una società di consulenza? “No, perché? Non c’è bisogno, la comunicazione si può fare anche senza consulenze. Io facevo il professore e continuerò a insegnare. Vediamo, ancora è presto per parlare di futuro”. Senta Geraci, chi è che la odia di più? Si guarda intorno: “Mah, forse qualcuno nella Lega”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.