Luigi Di Maio e Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Di Maio torna a Shanghai e dovrebbe prendere appunti da Macron

Giulia Pompili

Il ministro degli Esteri italiano in Cina si presenta senza sottosegretario al Commercio estero. Il presidente francese, che si è intestato la leadership europea dei rapporti con Pechino, ha le idee abbastanza chiare

Roma. Un anno dopo, Luigi Di Maio torna sul luogo del delitto (per intenderci: Ping). Questa volta non da ministro dello Sviluppo economico ma da capo della diplomazia del governo italiano. Di Maio è arrivato ieri a Shanghai, alla seconda edizione del China International Import Expo, il gran bazar dell’import cinese, per una missione di quarantotto ore. Il confronto con la visita del presidente francese Emmanuel Macron, che è arrivato ieri a Shanghai e ripartirà domani da Pechino, è impietoso. E forse riassunto in uno scatto rubato tra il presidente francese e il leader dei Cinque stelle (che andò a stringere la mano ai gilet gialli), dove il secondo appare quasi in soggezione, e lascia il passaggio al primo. Le due missioni sono diverse per autorevolezza, per obiettivi, ma soprattutto per l’approccio al negoziato: per Macron gestire i rapporti con la Cina è una priorità, così come lo è per la Germania di Angela Merkel. La politica ne discute, sia a Parigi sia a Berlino, e le relazioni si basano su un delicatissimo equilibrio di interesse nazionale, sicurezza nazionale e necessità di apertura alla Cina. Qui da noi, invece, dopo una fiammata di dibattito pubblico nel marzo scorso, i rapporti politici con Pechino sono tornati a essere improvvisati specialmente da Di Maio – che sembra non aver mai avuto neanche un dubbio sul “modello cinese”.

 

Proprio l’anno scorso, alla fiera di Shanghai, assieme al sottosegretario al Mise Michele Geraci, Di Maio aveva promesso ai cinesi la firma del memorandum d’intesa sulla Via della Seta – quello che l’Italia poi ha firmato a marzo, primo tra i paesi del G7, entrando ufficialmente nelle grazie propagandistiche di Pechino. Il fatto è che di commercio, l’anno scorso come quest’anno, non se ne parla. La bilancia commerciale tra Italia e Cina resta inchiodata alle arance, nonostante le promesse del leader dei Cinque stelle di “una svolta sulle carni bovine” e di un “accordo importante sul riso”. Il primo motivo è che da due mesi il ministro degli Esteri Di Maio, dopo aver spostato il commercio estero dal Mise alla Farnesina, ha bloccato le deleghe: di fatto, nessuno dei suoi sottosegretari ha un ruolo operativo. L’incarico sarebbe dovuto andare a Ivan Scalfarotto di Italia Viva, già sottosegretario al commercio estero con Renzi e Gentiloni, ma di mezzo si è messo il fedele M5s Manlio Di Stefano, di recente folgorato sulla via dell’Asia. Va da sé che a distanza di mesi dal caos provocato dal sinocentrico Geraci, a livello politico il nostro commercio estero, pur magnificato da Di Maio, non è rappresentato da nessuno. Una impasse provocata da bilanciamenti e prove di forza, e non per chissà quale fine strategia. Per fortuna ci sono le imprese, il tessuto economico italiano, che pur senza grandi aiuti del governo alla fiera di Shanghai partecipano in novanta, accompagnate dalla Fondazione Italia Cina con l’Associazione italiana commercio estero e la Camera di commercio italo-cinese. Ma Di Maio fa la parte dell’inconsapevole (recita?): ieri ha fatto una passeggiata con il suo omologo cinese Wang Yi, ha detto che è affascinato dal modello delle energie rinnovabili, e i due hanno scambiato varie frasi di circostanza. Una cosa però Wang Yi l’ha detta: “Se il nostro presidente ha visitato l’Italia prima della Francia è merito vostro”, riferendosi alla visita di Xi in Europa a marzo, quando in Italia venne per firmare un accordo politico e poi, nella seconda tappa del tour a Parigi, Macron lo accolse con una commessa di Airbus da 30 miliardi di euro e poi un vertice a sorpresa con la cancelliera tedesca, Angela Merkel e il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker. Per Xi lo spot della Via della Seta era l’Italia, ma Wang Yi ha poi ribadito a Di Maio che gli unicorni non esistono: “La Cina sostiene l’integrazione europea, vuole una Ue più forte e crede che il suo sviluppo non deve essere deciso da pochi, ma da tutti”.

 

La leadership europea nei rapporti con la Cina, ha scritto ieri François Godement, senior advisor per l’Asia dell’Institute Montaigne, se l’è intestata Macron. E’ stato il primo a definire la Cina un “rivale sistemico”, ma si è detto anche pronto a difendere il multilateralismo e “i diritti universali – in un momento in cui i diritti umani sono particolarmente in pericolo in Cina”. Resta uno dei pochi leader al mondo che, secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche, continua nella tradizione di porre la questione dei diritti umani all’inizio di ogni negoziato con la Cina. Ma ha un approccio molto simile a quello tedesco: la Germania è la casa della maggior parte dei dissidenti cinesi in Europa, ma qui Merkel non ha messo paletti alle aziende cinesi che volessero participare alle gare per il 5G, e ha scatenato l’opposizione interna. Lo ha fatto per interesse, ma finendo pure per ribadire un concetto: se il libero mercato è un principio fondamentale dell’Unione, va difeso, anche quando si tratta di mettersi contro gli Stati Uniti.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.