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Più Libia, meno gilet e meno Giletti

Claudio Cerasa

Le alleanze sbagliate, l’impotenza del sovranismo, il passaggio da parte della soluzione a parte del problema. La pericolosità del governo populista spiegata con il disastro italiano in Libia (e con una frase consegnata da Salvini al Foglio)

“Lasciamo Palermo portando con noi il sentimento di fiducia per aver dato una prospettiva di stabilizzazione della Libia”. Era il 14 novembre del 2018 quando a pochi mesi dal nostro anno bellissimo il premier Giuseppe Conte festeggiava con un sorrisone la stretta di mano alla Conferenza di Palermo sulla Libia con il presidente Fayez al Serraj e il generale Khalifa Haftar. Cinque mesi dopo, il processo di consolidamento della Libia ha di fronte a sé una prospettiva diversa, all’interno della quale la parola destabilizzazione ha preso il posto della parola stabilizzazione. Ieri pomeriggio due aerei dell’aviazione di Haftar hanno bombardato l’aeroporto internazionale di Mitiga, l’unico fino a oggi aperto a Tripoli e hanno ricordato agli osservatori quanto sia sottile il filo che separa la Libia dal ritorno di una guerra civile.

     

Il rimescolamento degli equilibri libici ci mostra una fotografia che dice molto non solo sui rapporti di forza esistenti all’interno del paese africano, ma anche sullo stato di salute di un paese come l’Italia che, proprio sul dossier libico, mesi fa ha ricevuto dagli Stati Uniti un incarico importante: “Con Donald abbiamo concordato e raggiunto i seguenti risultati. Da oggi avremo un fatto nuovo e significativo: una cabina di regia permanente Italia e Usa nel Mediterraneo allargato, una cooperazione strategica, quasi un gemellaggio, in virtù del quale l’Italia diventa punto di riferimento in Europa e interlocutore privilegiato degli Stati Uniti per tutte le crisi che riguardano le aree del Mediterraneo, con particolare riguardo alla Libia”. Era il 30 luglio 2018, le parole tra virgolette sono quelle lette in conferenza stampa alla Casa Bianca da “Giuseppi” Conte e nove mesi dopo quell’incarico la situazione è quella che è. A un passo da una possibile guerra civile in Libia, l’Italia che doveva diventare punto di riferimento in Europa degli Stati Uniti, con particolare attenzione alla Libia, si ritrova (a) con rapporti ai minimi termini con un paese come la Francia con cui, specie quando si parla di Libia, piuttosto che litigare conviene collaborare; (b) con un ministro dell’Interno che si è seduto più volte a fianco di Massimo Giletti che a fianco dei capi tribù della Libia; (c) con un’assenza quasi totale di rapporti politici con il blocco sunnita dei paesi del Golfo che oggi sostiene Haftar; (d) con un governo così interessato a occupare il potere d’Italia da non essersi reso conto di cosa avrebbe rischiato l’Italia cambiando contemporaneamente due persone chiave in Libia come l’ex capo dell’Aise Alberto Manenti e l’ex ambasciatore Giuseppe Perrone; (e) con un pezzo di comunità internazionale che ha scelto di portare avanti la strategia dell’andare oltre Serraj prescindendo dagli orientamenti dei vertici istituzionali del nostro paese.

     

“In Libia – ha detto ieri mattina a Milano Matteo Salvini rispondendo a una domanda della nostra Paola Peduzzi subito dopo la presentazione della piattaforma sovranista per le elezioni europee – noi stiamo ragionando con tutte le parti in conflitto per arrivare a un tavolo dove ciascuno rappresenti una parte di Libia. Come servizi di sicurezza italiani, stiamo dialogando con tutte le parti in causa. Ovviamente da soli non ce la facciamo e sarebbe utile che gli alleati europei gettassero acqua e non benzina sul fuoco”. Da un certo punto di vista, l’affermazione di Salvini è la dimostrazione plastica della pericolosità della strategia del governo sovranista italiano, che non si è limitato soltanto a cancellare tra le priorità del nostro paese il dossier libico, ma ha fatto anche di più: ha scelto di isolarsi, ha scelto di trasformare in nemici gli alleati naturali dell’Italia, ha scelto di trasformare in alleati gli avversari naturali dell’Italia, ha scelto di trasformare in priorità del paese le emergenze farlocche, ha scelto di nascondere sotto il tappeto della propaganda le emergenze vere e da parte della soluzione è diventato parte del problema. Vale quando si parla dell’affidabilità mostrata dall’Italia in Europa: come puoi stare dalla stessa parte dei gilet gialli e chiedere collaborazione in Libia al governo francese? Vale quando si parla dell’affidabilità mostrata dall’Italia in Libia: come puoi chiedere alla comunità internazionale di riconoscere la Libia come porto sicuro e poi non riuscire a creare le condizioni per proteggere in Libia neppure il personale dell’Eni? Vale anche quando si parla dell’affidabilità mostrata dall’Italia nella protezione delle proprie frontiere: come puoi sostenere di fare gli interessi del tuo paese e non fare nulla per convincere l’Europa a non disimpegnarsi dal Mediterraneo come successo con il ridimensionamento della missione Sophia? La crisi della Libia non fotografa solo la debolezza di un paese strategico a due passi dell’Italia ma anche la fragilità di un paese come l’Italia che a forza di costruire la sua agenda di governo sulla percezione ha disimparato a fare i conti con il più pericoloso nemico del cambiamento populista: la realtà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.