I manifestanti del Sudan espongono una scritta: "Basta cadere, questo è tutto quello che vogliamo" (Foto LaPresse)

In Sudan tante donne in piazza. Il regime, i suoi uomini e l'indicibile primavera

Paola Peduzzi

La protesta contro il regime di Bashir resiste e diventa più grossa. L’esercito inizia a stare dalla sua parte

Milano. La piazza del Sudan non si muove più, protesta da sabato scorso ininterrottamente e non si muove, anzi diventa più grande, più decisa, più convincente. Perché a muoversi sono gli altri, sono i soldati che hanno iniziato a proteggere i manifestanti da altre forze del regime che invece hanno ricevuto ordine dal rais, Omar al Bashir, di disperdere la folla. Sentirete parlare di golpe e di lotta intestina in una dittatura islamica (in Sudan è stata introdotta la sharia nel 1983) che dura da trent’anni, ma questa protesta non è e non sarà soltanto una resa dei conti di palazzo. L’insofferenza era montata a dicembre, quando erano state introdotte misure di austerità che toglievano sussidi e facevano aumentare i prezzi, in particolare del pane e dei beni di prima necessità.

 

I sudanesi avevano cominciato a protestare, erano intervenute le Forze armate, la folla si era dispersa, e per evitare altri disordini Bashir aveva introdotto, a fine febbraio, lo stato d’emergenza, cosicché anche piccoli assembramenti potevano essere una scusa per mandare tutti in galera. Ma sabato le associazioni dei lavoratori hanno dato appuntamento ai sudanesi davanti al quartier generale dell’esercito a Khartum, e tutto è cambiato, la forza di chi sta in piazza e non si muove, e la posizione dei soldati che non attaccano, non disperdono, non reprimono: proteggono. Non tutti e non per sempre probabilmente, ma oggi la piazza sudanese grida a Bashir di andarsene e si mette gli orecchini con la luna d’oro, il simbolo delle spose e del cambiamento.

  

Le donne, che sono secondo la Bbc la forza trainante di questa protesta, salgono sul tetto delle auto e parlano, cantano, danno il ritmo alla ribellione: l’immagine e il video di una di loro ha fatto il giro del mondo, questa ragazza ha un sorriso enorme, la tunica bianca che è la divisa da lavoro e la stessa divisa che le mamme e le nonne indossavano nelle rivolte degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, e gli orecchini con la luna che brillano. Le chiamano “kandaka” dal nome delle regine della Nubia che hanno nella storia del Sudan il ruolo delle condottiere eroiche, che combattevano per il loro paese e per i loro diritti. Alcune non amano l’appellativo, non siamo regine, siamo come tutti gli altri e le altre dicono, ma altre sono fiere, dicono “kandaka” e battono le mani, perché queste donne sono così, resistono e cantano, distribuiscono acqua e coraggio, in una società in cui solitamente sono tenute nascoste (e al 90 per cento subiscono l’infibulazione).

 

La residenza di Bashir, al potere dal 1993 e accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra e contro l’umanità (il mandato d’arresto è del 2009, per Bashir “non vale nemmeno l’inchiostro con cui è scritto”, è la prima volta che la Corte incrimina un capo di stato in carica), è dentro al compound in cui c’è anche l’esercito, quindi la protesta è sotto casa sua. Continua a ripetere che vuole una soluzione pacifica e il dialogo con la piazza, ma nel fine settimana si sono presentati alle manifestazioni gli ex janjaweed, le milizie che terrorizzarono il Darfur all’inizio degli anni Duemila: ora si chiamano Forze di reazione rapida, sono guidate dal colonnello Hemetti e prendono ordini dai servizi segreti, lo stato nello stato del Sudan, che continuano a essere fedeli al regime e contano su circa 30 mila persone, tra soldati e agenti.

 

Annunciando lo stato d’emergenza, Bashir aveva fatto anche un rimpasto di governo mettendo molti militari in posti prima occupati da civili e promuovendo come vice il ministro della Difesa, Ahmed Awad Ibn Auf: la piazza chiede che anche lui se ne vada assieme a Bashir. Ma ci sono molte divisioni interne, come dimostra la sostituzione repentina avvenuta l’anno scorso del capo di stato maggiore: il nome del generale rimpiazzato, Emad Eddin Mostafa Badawi, circola come possibile interlocutore della piazza. Che è trainata dall’Associazione dei professionisti del Sudan (Spa), che si appoggia ad altre tre formazioni che includono anche dei gruppi armati.

 

Il rischio di una deriva violenta è alta, i manifestanti portano come esempio la protesta pacifica in Algeria, Bashir farà la fine di Bouteflika dicono, ma altri temono che le strade più probabili siano o la repressione o il caos. E mentre dai bancomat non esce nulla e chi ha qualche soldo non riesce a comprare il pane perché non c’è la farina per farlo, qualcuno parla di una seconda stagione delle primavere arabe. Ma non è un ricordo rassicurante, questo, più di duemila persone sono state arrestate, almeno 60 sono state uccise, ci sono continue esplosioni: meglio non illudersi, senza dimenticare però che ci sono i soldati che proteggono e gli orecchini con la luna che brillano.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi