Manifestazioni in Sudan (foto LaPresse)

Il Sudan sta scoprendo la pazienza strategica della piazza (che canta)

Paola Peduzzi

Le proteste sono sempre più grosse. Domani l’opposizione presenta i nomi della “sua” transizione

Milano. Le bandiere, la musica, i canti, “basta con i militari”, migliaia di persone che non desistono, si organizzano, stanno già pensando a come fare a mantenere viva la protesta quando inizierà il ramadan. Karthoum, capitale del Sudan, oggi è questa piazza, sempre più grande e vivace: il dittatore, Omar el Bashir, è caduto, è in prigione con altri suoi accoliti, ma i manifestanti non si fermano. I militari hanno preso il potere del paese, dicono che vogliono ascoltare le richieste dei manifestanti, hanno liberato molti prigionieri politici e chiudono un occhio se il coprifuoco non è rispettato (non lo è mai, anzi di notte ora c’è la musica, e fino a dieci giorni fa questa libertà non era pensabile), ma mantengono il ruolo di reggenti: tra due anni ci saranno delle elezioni, promettono, ma per ora restiamo noi. Allora non ci muoviamo qui, risponde la piazza, che non vuole lasciarsi illudere da una promessa vaga e che pretende fin da oggi che i militari si facciano da parte e che sia un consiglio formato da esponenti della società civile a governare la transizione.

 

  

Domani l’associazione dei professionisti che guida le proteste annuncerà i nomi di chi dovrebbe far parte del consiglio per mettere ulteriore pressione ai militari. Finora la strategia ha funzionato: non soltanto Bashir è stato deposto, ma anche il primo reggente, Ahmed Awad Ibn Auf, che era il ministro della Difesa e numero due di Bashir, si è fatto da parte in ventiquattro ore dalla conferenza stampa in cui si era presentato come garante di una transizione pacifica, lui che ha guidato esercito e intelligence del Sudan per molti anni. Il regime è alla prese con una resa dei conti interna: ora il reggente è un altro generale, Abdel Fattah al Burhan Abdelrahman, il terzo volto del governo in dieci giorni, che cerca un compromesso tra gerarchie militari e proteste.

 

Ma i manifestanti non si accontentano, insistono: soltanto un governo di civili ci può togliere di qui, le promesse non bastano. Questa è la grande novità di queste primavere arabe, nove anni dopo quelle del 2011: allora l’euforia andava di pari passo con la frenesia, vogliamo la libertà e la vogliamo subito, tutto andava rapidamente, e quando poi è arrivata una regia – spesso accompagnato dalla repressione – la primavera si è spenta, e i regimi hanno cambiato la faccia e non la sostanza.

 

Nelle piazze di oggi, si cita spesso l’Egitto: non vogliamo finire così, ripetono molti, come se l’esperienza egiziana – il dittatore caduto, il governo breve della Fratellanza musulmana, un nuovo regime e una durissima repressione – fosse il paradigma di quel che non deve più accadere. La democrazia è una faccenda lunga, hanno capito questi nuovi manifestanti, ci vuole pazienza strategica, non bisogna accontentarsi di cambiamenti cosmetici ma allo stesso tempo bisogna trovare un’alternativa solida, per evitare lo scivolamento verso una guerra civile. Il Sudan è in bilico su questo sentiero. Non tutto dipende dalla piazza: l’esercito e gli apparati dell’intelligence – questi ultimi dall’inizio delle proteste vogliono intervenire per disperdere i manifestanti con la forza – possono decidere da un momento all’altro che il dialogo è finito, e passare alle armi.

 

Ma la piazza usa questo tempo nel miglior modo possibile: Alastair Leithead della Bbc sta raccontando nei dettagli la pazienza della piazza del Sudan, che ha fatto tesoro dei fallimenti del passato. Di recente ha raccontato dei professori dell’Università di Karthoum, che fanno parte delle Forze per la libertà e il cambiamento, che raggruppa tutte le anime dell’opposizione al regime. Questi professori da tempo cercano di spiegare agli studenti cos’è l’alternativa a un regime, e all’inizio i ragazzi li guardavano pure con un certo sospetto: non avevano mai visto nulla nella loro vita che non fosse il presidente Bashir. I professori hanno educato i ragazzi alla democrazia, non soltanto per quel che riguarda i diritti, ma creando laboratori sull’economia, l’agricoltura, le infrastrutture. Potremmo stare bene e invece non stiamo bene, e forti di questa prospettiva i ragazzi e le ragazze animano la piazza, con i canti politici – sono tantissimi nella tradizione sudanese – accompagnati da violini e tamburi.

L’immagine di un soldato che suona il sassofono davanti ai manifestanti è l’ultimo simbolo della protesta sudanese, dopo quella della ragazza che canta sul tetto dell’auto: siamo allegri ma non siamo ingenui, balliamo ma non ci distraiamo, questa rivoluzione non va di fretta, la pazienza strategica questa volta è nostra.

 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi