Come guarire l'Italia dei senza cervello
L’allarme di Draghi sulla crescita. La protezione di fronte alla Cina. L’isolamento che diventa irrilevanza. Il Pd non compatibile con il M5s. L’idea di un patto tra ex premier. “Zingaretti? Mi ricorda Gino Bartali”. Chiacchierata scanzonata con Romano Prodi
Il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, ieri ha ricordato che tra i fattori interni che pesano sul rallentamento dell’Unione europea c’è un tema gigantesco legato “a un calo di fiducia che si riflette nei vari settori e nei vari paesi”. Nel fare questo esempio, Draghi ha prima citato la crisi probabilmente momentanea del comparto automobilistico in Germania e ha poi citato la crisi probabilmente non momentanea che sta vivendo uno dei paesi fondatori dell’Unione europea: l’Italia. Il governatore della Bce ha detto che l’Italia è “certamente” uno dei veri fattori di rischio dell’Europa ed è anche alla luce degli effetti generati sull’economia dall’instabilità politica che la Banca centrale ha deciso a sorpresa di lasciare i tassi di interesse invariati fino al termine del 2019, per qualche mese in più rispetto a quanto previsto precedentemente.
Il 2019 non sarà dunque un anno bellissimo – l’Ocse ha rivisto al ribasso le stime dell’Italia e il nostro paese oggi è l’unico nell’area ad avere un segno meno sulla crescita insieme ad Argentina e Turchia – e uno dei primi uomini delle istituzioni a sostenere questa tesi in tempi non sospetti è stato Romano Prodi. Ieri mattina abbiamo contattato l’ex presidente del Consiglio per discutere con lui di questo e di molto altro: dello stato della nostra economia, del futuro dell’Italia in Europa, dei rischi del protezionismo, del dramma dell’isolamento, della traiettoria del centrosinistra, della truffa del sovranismo, dell’emergenza infrastrutture, del rapporto con la Cina e del modello Gino Bartali. Che c’entra Gino Bartali? Ci arriviamo.
“Sono convinto – ci dice Prodi al telefono, con la voce bassa, con lunghe pause e lunghe esse che sostituiscono la zeta in ogni parola – che l’anno che stiamo attraversando sarà molto complicato dal punto di vista economico e temo che buona parte delle previsioni diffuse negli ultimi mesi siano persino troppo ottimistiche. E’ un problema legato al clima di non fiducia che si respira oggi in Italia ma è un problema legato anche alle cattive riforme fatte da questo governo. E se la scommessa di Salvini e Di Maio è dare un po’ di soldi alle persone che ne hanno bisogno sperando che queste poi li spendano, io penso che la scommessa sarà fallimentare. Le crisi di fiducia si traducono sempre in crisi di consumi e quando un paese come l’Italia si ritrova ad affrontare una crisi di questo tipo è inevitabile che l’economia si vada a bloccare”.
E se l’economia si dovesse avvitare, come sembra, la previsione di Prodi è che sarà questo governo o un altro a fare la prossima legge di Stabilità? “Entro ottobre, prima della definizione del budget, ci sarà la resa dei conti. Ma quando una economia va in sofferenza non è da escludere che ci siano incidenti anche prima. Di certo, possiamo dire però che nel 2020 non sarà possibile usare gli stessi espedienti usati nel 2019. Per arrivare alle europee senza troppe ferite, il governo quest’anno ha trovato un compromesso con la Commissione mettendo in atto una serie di spese aggiuntive alla manovra a partire da aprile. Il prossimo anno, oltre al tema delle clausole di salvaguardia e della crescita in discesa, ci sarà anche questo: che le spese aggiuntive riguarderanno non nove ma dodici mesi, e non è un dettaglio”.
Ma Prodi pensa che il governo sia solido o sia sul punto di crollare? “Il potere è sempre un grande collante e i due azionisti di governo è possibile che abbiano fatto proprio il vecchio detto siciliano: cumannari è megghiu di futtiri”. A Romano Prodi chiediamo poi se i guai futuri dell’Italia possano dipendere anche dall’introduzione nel nostro paese del reddito di cittadinanza. In un primo momento il Prof. tentenna con un sorriso – “Cioè sta chiedendo a me, vetero cattolico, se i poveri debbano essere aiutati?” – ma poi sviluppa un ragionamento per spiegare in che senso una forza progressista matura oggi non può che criticare il reddito in versione grillina. “Il problema non è il sostegno alla povertà, ci mancherebbe, e sbaglia chi ironizza sul fatto che il reddito di cittadinanza sia un invito ad andare in vacanza. Il problema è che in un paese riformista una misura di questo tipo si fa un pezzo alla volta, passo dopo passo, e la si fa solo combinandola con politiche attive sul lavoro, con una cooperazione con gli enti locali, dando un sostegno alle imprese per assumere, abbassando il cuneo fiscale, ragionando non su una sola tessera del mosaico ma sull’intero mosaico e sull’interno paese”.
“La vera dignità non è avere un sussidio a vita ma è avere un lavoro…”. Mentre Prodi parla arrotondando ogni spigolo delle parole lo interrompiamo qualche secondo per leggergli la posizione presa dalla Cei sul reddito di cittadinanza due giorni fa, nel corso di un’audizione alle commissioni Lavoro di Camera e Senato. Primo punto: “Il reddito di cittadinanza rischia di attenuare la spinta a cercare lavoro”. Secondo punto: “Ricerche internazionali confermano che misure di sostegno al reddito non hanno successo se l’ammontare è vicino al reddito che sarebbe percepito lavorando. La misura quindi scoraggia il reinserimento delle persone disoccupate nel mercato del lavoro”. Terzo punto: “Tra i rischi che il provvedimento comporta vi è quello di rinunciare a offerte di lavoro che prevedano una retribuzione che non risulta distante da quanto previsto dal RdC”. Quarto punto: “Occorre evitare il rischio di aumentare queste forme di cittadinanza non solo passiva ma anche ‘parassitaria’ nei confronti dello Stato”.
Prodi ci pensa un attimo e poi riprende il filo del suo discorso dicendo così: “E come si fa a non essere d’accordo? Come si fa a non pensare che una vera politica riformista sia quella che riesce a mettere insieme sostegno alla povertà e sostegno a chi crea lavoro?”. La nostra chiacchierata con Romano Prodi, prima di arrivare a Bartali e allo scenario politico italiano e al futuro del centrosinistra, si sposta sul fronte europeo. Per discutere di elezioni europee il Professore cita il formidabile discorso antinazionalista fatto a Bologna tre settimane fa da Mario Draghi. “Draghi – dice Prodi – ha ragione quando sostiene che i veri sovranisti sono gli europeisti perché la sovranità si difende facendo squadra e non isolandosi. E per le forze europeiste la grande sfida dei prossimi mesi, se vogliamo, sarà proprio questa: spiegare perché i paesi che intendono essere sovrani non possono permettersi di essere isolati. E un paese che litiga con i suoi maggiori partner europei e che non riesce neppure a creare alleanze con i suoi nuovi presunti partner è un paese che dimostra di non avere né muscoli, né cervello. Isolarsi in Europa significa condannarsi a essere irrilevanti. Ed essere irrilevanti oggi per un paese come l’Italia alla vigilia delle elezioni europee significa autocondannarsi a non contare nulla nell’Europa del futuro. Quando il nuovo Parlamento discuterà di nomine, di presidenze di commissione, di commissari europei, l’Italia scoprirà che essere estranei all’Europa non significa battere una nuova strada, significa fare un passo per essere fuori dal mondo”.
Romano Prodi è convinto che nella prossima legislatura, in Europa, “ci sarà con ogni probabilità un’alleanza molto larga tra famiglie europeiste”, e sostiene che alla fine “le forze nazionaliste non avranno il peso che in troppi oggi attribuiscono loro”. Al contrario di quello che si potrebbe credere, però, Prodi non pensa che una grande, grandissima coalizione tra Ppe, Pse, Alde e centristi vari possa segnare l’inizio di un nuovo bipolarismo europeo, di una nuova geografia politica all’interno della quale si trovano forze europeiste e forze antieuropeiste, e non lo pensa Prodi in virtù di una convinzione precisa: “Dopo la Brexit, dopo i danni creati dal voto per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, anche gli antieuropeisti più incalliti hanno capito che i costi dell’uscita dall’Europa sono semplicemente insostenibili”.
Chiediamo a Prodi, cercando di provocarlo, se il nazionalismo di oggi abbia qualcosa in comune con quello nero e tetro osservato in Europa nella prima metà dello scorso secolo ma Prodi dice che no, “i populisti di oggi non sono i fascisti di ieri perché la storia non si ripete mai due volte, perché oggi c’è l’Europa e perché le tensioni di questa fase storica sono del tutto diverse rispetto al passato”. Fra le tensioni di questa fase storica, facciamo notare a Prodi, esiste anche un problema grande come una casa di rapporti con la Cina. Chiediamo a Prodi, che pure con Pechino ha una certa familiarità, se non sia pericoloso per un paese come l’Italia offrire con nonchalance alla Cina infrastrutture strategiche come il 5G e se non sia un danno avere un governo che arriva a esprimere parere contrario di fronte alla possibilità di effettuare controlli preventivi sugli investimenti cinesi nei settori strategici europei. Prodi dice che “è vero, esistono limiti che non si devono superare” ma offre una chiave di riflessione ulteriore. “La Cina non ha alcun interesse a indebolire l’Europa, quell’interesse lo stanno dimostrando altri paesi come la Russia di Putin e l’America, che evidentemente oggi vedono nell’Italia un partner affidabile nella misura in cui il nostro paese li aiuta a raggiungere il loro obiettivo, ma quando si parla di Cina è evidente che vi sono degli equilibri che non vanno sottovalutati. Infatti mi sono sempre opposto al modello di cooperazione economica chiamato 16+1 (il progetto lanciato da Pechino nel 2012 per intensificare la cooperazione tra sedici paesi del centro e dell’est Europa con la Cina, ndr), ma il dato di fondo che anche un nazionalista in buona fede dovrebbe capire è che se il rapporto con la Cina avverrà su un piano esclusivamente nazionale, la partita non c’è: se avverrà su un piano europeo ciascun paese dell’Unione può trovare un modo per proteggersi senza dover ricorrere alla retorica protezionista”.
La nostra conversazione con Romano Prodi si conclude con un passaggio sul centrosinistra e un altro paio sul governo. Gli chiediamo se sia corretto dire che sui temi più importanti, Europa, democrazia, pensioni, lavoro, le posizioni del M5s siano simili a quelle della Lega, ma su questo Prodi non la pensa come noi: “Faccio fatica a dire che siano due forze politiche simili: non lo sono per moltissime ragioni. Una ragione meno appariscente ma credo importante è che la Lega si esprime sempre in un modo compatto mentre il M5s si muove in modo imprevedibile e senza un’identità precisa. Mettere a confronto un’identità con una non identità non è facile”. Chiediamo a Prodi se la sua affermazione possa essere tradotta con una sua intenzione a segnalare una diversità tra Pd e M5s meno netta rispetto a quella che può esistere tra Pd e Lega ma il Professore ci ferma subito con un ammonimento e una ammissione. L’ammissione è che sì, “lo scorso anno mi auguravo un dialogo tra Pd e M5s, sapendo benissimo che non si sarebbe potuto concludere positivamente ma che avrebbe aiutato a chiarire le posizioni. Ma oggi – continua Prodi – bisogna dire le cose come stanno: non ci si può augurare in nessun modo che il Pd possa fare un’unione con due forze parimenti divergenti con il mondo riformista come il M5s e come la Lega”.
E più che pensare alle improbabili alleanze con partiti con cui non ci si può alleare, Prodi dice che il centrosinistra e il Pd di Nicola Zingaretti dovrebbero lavorare per creare una coalizione capace di essere competitiva prima e non dopo le elezioni. “Lo spazio per un altro partito c’è e con una legge elettorale come quella che abbiamo oggi, immaginata solo per rendere non governabile il paese, bisogna augurarsi che qualcosa di nuovo nasca e che prima o poi accanto al Pd ci sia una nuova forza per così dire liberal moderata”. In questo senso, dice Prodi, Zingaretti potrebbe essere un buon aggregatore perché il nuovo segretario del Pd, secondo l’ex premier, “è uno coerente e serio e ha il profilo di quello che nel ciclismo si definisce passista: di chi non fa spettacolo, di chi non vince magari la volata o la scalata, di chi non entusiasma le folle, ma di chi alla fine porta a casa il risultato”. Un passista a cui potrebbe assomigliare Zingaretti? “Qualcosa a metà tra Gino Bartali e il fiammingo Eddy Merckx. Il primo lo conosciamo tutti. Il secondo forse un po’ meno. Ma era un passista particolare: sembrava non appariscente, ma lo chiamavano il cannibale…”. Prodi sostiene che il Pd del futuro dovrebbe stare molto attento a non passare nel giro di pochi mesi “dalla rottamazione”, che non ha mai amato, “alla restaurazione”, che il professore non consiglia a Zingaretti.
Arrivati alla fine della nostra chiacchierata chiediamo a Prodi di rispondere a un’ultima domanda: ma in un paese come l’Italia, dove l’establishment fatica a trovare una sua identità, non sarebbe opportuno che gli ex presidenti del Consiglio formassero una sorta di consulta permanente per discutere insieme dei problemi del paese? Prodi ci pensa un attimo e la mette così: “In Italia, l’establishment esiste meno che negli altri paesi. Fino a oggi quel poco di establishment italiano che c’è ha scelto di dedicarsi ai talk-show per massimizzare le differenze. Così si rendono impossibili le politiche comuni. Forse è arrivato il momento di armonizzare le differenze e trovare una politica comune, senza rinunciare alla diversità degli schieramenti evidentemente alternativi. L’idea mi piace. Servono nuove coalizioni, certo, ma non sottovalutiamo il valore di qualche colazione tra chi ha governato l’Italia. Anche una colazione può essere utile per fare sistema e non lasciare affondare il paese”. Coalizioni e colazioni. Il vaccino antipopulista, forse, passa anche da qui.
storia di una metamorfosi