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Viva i vescovi contro il reddito di pigranza

Claudio Cerasa

Il dramma del reddito in versione grillina non è tecnico ma è l’idea di mondo che si porta dietro: è condannare l’Italia a non avere un futuro. I dati dell’Ocse, la crescita che crolla, la gran scomunica della Cei: come ribellarsi alla povertà di cittadinanza

L’opposizione più efficace, più diretta, più significativa e più rilevante registrata nelle ultime settimane sul tema del reddito di cittadinanza, che meriterebbe di essere recitata come un rosario, non arriva da un partito ma da una sigla non politica molto importante che ieri ha bocciato con un tono da scomunica uno dei provvedimenti chiave del cambiamento populista. La sigla è quella della Cei, la conferenza dei vescovi italiani, e la bocciatura tanto clamorosa quanto esplicita è arrivata ieri, proprio nella prima giornata utile per richiedere il reddito di cittadinanza, attraverso la voce di don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, e Sergio Gatti, vicepresidente del Comitato scientifico, nel corso di un’audizione parlamentare presso le commissioni riunite Lavoro e Affari sociali.

 

Tra i rischi riguardanti il reddito di cittadinanza, hanno detto Bignami e Gatti, spicca “quello di attenuare la spinta a cercare lavoro o a convincere a rinunciare a offerte di lavoro che prevedano una retribuzione non distante da quanto previsto… ed è enorme il rischio di aumentare queste forme di cittadinanza non solo passiva ma anche parassitaria nei confronti dello stato”. Il ragionamento dei due ambasciatori della Cei è perfetto e ci permette di mettere a fuoco la vera questione che fa del reddito di cittadinanza una misura semplicemente sciagurata.

 

Il punto non è il rischio “tecnico” che il Rdc alla fine sia solo un sussidio, come ha spiegato ieri Repubblica che ha provato a smontare il reddito con l’argomento più pigro possibile, ma il rischio che il pacchetto di riforme collegato alla misura chiave del cambiamento contribuisca a creare un contesto dominato da una formula che può rappresentare un dramma per l’Italia: la povertà di cittadinanza. Il ministro Danilo Toninelli, sempre con intensità, ieri ha detto che grazie al Rdc l’Italia metterà in campo un cambiamento politico che “rilancerà i consumi, la formazione e il lavoro”. La verità, purtroppo per il nostro paese, rischia di essere l’esatto opposto.

 

L’ex presidente dell’Inps Tito Boeri ha spiegato bene che il principale difetto del Rdc è quello di avere degli effetti di scoraggiamento al lavoro rilevanti (il 45 per cento dei dipendenti privati nel sud Italia ha redditi da lavoro netti inferiori ai 9.360 euro all’anno garantiti dal Rdc e lo stipendio medio dei giovani under 30 oggi è di 830 euro netti al mese contro i 780 garantiti dal reddito) ed è possibile, come ha segnalato l’Fmi, che il Rdc abbia anche un effetto recessivo (secondo una relazione trasmessa dal ministero del Lavoro alla Ragioneria generale dello stato, dei 6 miliardi di euro investiti sul sussidio soltanto 1,8 miliardi torneranno all’economia). Ma il vero problema, più che di natura tecnica, è di natura economica e culturale e il punto è che anche a causa del Rdc il nostro paese ha scelto di non fare tutto ciò che sarebbe stato necessario per dare all’Italia nel 2019 una speranza di crescita e dunque di maggiore occupazione. I governi interessati a valorizzare la cultura del lavoro sanno che una forma robusta di sostegno alla povertà può avere un senso solo se accompagnata da misure espansive finalizzate a rimettere in moto l’economia attraverso gli strumenti dell’apertura e sanno che per fare questo occorre scommettere sulla cultura del rischio, investire sull’innovazione, rendere il paese più attrattivo per gli investimenti, abbassare il cuneo fiscale, combattere il lavoro in nero, creare occupazione anche attraverso una maggiore mobilità del mercato del lavoro.

   

E in questo senso, il vero difetto strutturale del reddito di pigranza è dunque quello di essere stato partorito all’interno di una cultura che in nove mesi ha fatto di tutto per mostrare il suo disinteresse a creare opportunità di lavoro. Lo ha fatto costruendo leggi che hanno inasprito le regole del mercato del lavoro, limitando il ricorso ai contratti a tempo determinato (e i risultati già si vedono: nei quattro anni precedenti al governo Conte l’Italia ha creato 712 posti di lavoro al giorno, con l’arrivo del governo Conte il saldo è passato a 371 posti di lavoro distrutti ogni giorno).

 

Lo ha fatto rendendo più vulnerabili le banche a colpi di spread al rialzo, creando così maggiori difficoltà nell’accesso al credito delle imprese (in Italia il rendimento richiesto dagli investitori sulle obbligazioni bancarie senior non garantite con scadenza a 5 anni è superiore di un punto percentuale a quello richiesto per le principali banche francesi e tedesche). Lo ha fatto lavorando con costanza per trasformare il nostro paese nel malato d’Europa (secondo l’ultimo outlook dell’Ocse, nel 2019 il pil italiano sarà di segno negativo, -0,2, -1,1 punti rispetto alle previsioni dell’outlook di novembre). Nelle prossime ore in molti si preoccuperanno di sottolineare i difetti dei centri dell’impiego, i difetti delle regole del provvedimento, i difetti delle forme di erogazione.

  

Quello che in molti si dimenticheranno di dire, e che ieri la Cei ha ricordato benissimo, è che il problema del reddito di cittadinanza versione grillina è l’idea di mondo che si porta dietro. E’ l’idea di trasformare l’incapacità di creare lavoro in una scusa utile per condannare l’Italia a un nuovo regime economico in cui i virus vengono spacciati per virtù. La povertà di cittadinanza non è un problema tecnico ma è un problema legato a un’incapacità che per un paese in difficoltà rischia di essere letale: vedere nel futuro un luogo di terrore e non un luogo di opportunità.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.