Homann Heirs, cartina d’Italia (1742)

Il risorgimento. Parte due

Maurizio Crippa

L’Italia-stato come la conoscevamo è finita il 4 marzo. E l’élite che governava dal centro non regge più. Chi ha voglia di pensare a un modello diverso? Piero Bassetti offre le sue idee

Il Risorgimento, secondo tempo. Il titolo suona accattivante. Per un sequel al cinema, o una serie tv. Meglio ancora per un saggio fantapolitico dedicato all’Italia. Più difficile, in una politica ridotta a marketing (“ci sono le Europee, andremo a votare per contrassegni”), trovare un partito, o anche soltanto un esponente politico italiano, disposto ad acquistare un prodotto così poco maneggevole, e potenzialmente esplosivo. “Il Risorgimento. Secondo tempo” significa accettare come un dato di fatto l’idea che il Risorgimento, parte prima, sia terminato. E manco a dirlo, anche se oggi come oggi i segnali sono tanti, ammettere che sia finito male.

  

“Il territorio dei nuovi popoli non è la terra, è la rete. Ciò che oggi segna i nuovi confini e le appartenenze sono i flussi, non gli stati nazionali”

Ma Piero Bassetti non va in cerca di compratori. Le sue idee le offre sul mercato del discorso politico gratuitamente, si può dire. Un po’ perché non ha interesse a future discese in campo – ne ha già fatte molte, in molte precedenti – vite, e la splendida età glielo consente. E, soprattutto, a Piero Bassetti piace guardare in campo lungo, si vede meglio il futuro: “Il territorio dei nuovi popoli non è la terra, è la rete. Ciò che già oggi segna i nuovi confini e le appartenenze sono la partecipazione alle reti delle comunicazioni, dei flussi delle merci e delle persone, al flusso dei big data. Il contrario di rimanere fissi su un territorio, gli stati nazionali. E’ la mobilità delle reti che segna i confini, oltre il dato tradizionale degli stati”. Chi chiude i porti o dichiara guerre commerciali sbaglia? “Non vede! Non vede il flusso dei popoli. Ma neanche il fatto che noi stessi, i nostri giovani più istruiti, sono nomadi. Non sono cervelli in fuga, definizione stupida: sono mobili”.

   

Piero Bassetti (foto LaPresse)


 

Classe 1928, imprenditore, primo presidente della Regione Lombardia dal 1970 al 1974, convinto regionalista ma mai attratto dal federalismo in salsa leghista (come oggi non è attratto dall’autonomia “differenziata” figlia dei referendum di Maroni e Zaia) è da lungo tempo portatore sano di una visione più complessa, al tempo più radicale (qualcosa delle teorie di Miglio, che la Lega non seguì mai, gli piace) del problema italiano. Che sempre attorno al punto di partenza, e alla strada mai intrapresa di Carlo Cattaneo, continua a ruotare. Non sono i massimi sistemi che gli interessano ma, con pragmatismo lombardo, riformista, una visione in divenire dei fenomeni. Non a caso ha fondato, oltre vent’anni fa, l’osservatorio politico Globus et Locus, che produce studi interessanti sul “glocalismo” e i confini mobili della macroregione del Nord, o come la chiama lui la megalopoli padana.

  

  

Da lì partono i suoi ragionamenti: sul collasso, o sul rischio di collasso attuale, dell’Italia. Se qualcuno volesse ascoltare, spiega impetuoso nell’ufficio della sua fondazione, in un’angolo di Milano antica sopravvissuto sotto Palazzo Lombardia (locale, globale…). “Perché si sta parlando di autonomia, ma non è quella giusta. Si parla di Europa o essere contro l’Europa (siamo europei per forza, altro che storie!), ma non c’è una proposta politica, con quale alleanza dovremmo andare in Europa?, né una visione di cosa sia oggi l’Italia, di come debba essere organizzata”.

   

Un’idea di macroregioni: bisogna chiedersi che cosa oggi il mondo chiede al Nord, e che cosa al Sud. Sviluppi diversi da governare

Bisogna partire dall’inizio. Che poi ha a che fare anche con la fine: l’inizio di questo caos. Quella che chiamiamo la vittoria dei due populismi è per Bassetti in realtà l’esito di un fenomeno più profondo, che riguarda la natura dell’Italia: “Il voto del 4 marzo è la testimonianza che il Risorgimento è finito. Capolinea. Significa che in 150 anni, fatta l’Italia, non siamo riusciti a fare gli italiani. Il voto ha rivelato che ci sono due Italie, Nord e Sud, che vogliono cose diverse, e perciò necessitano di due governi diversi: il governo centralizzato, che è il modello risorgimentale e poi repubblicano, non è in grado di rispondere a questa situazione”. Inoltre, accanto a questa, c’è anche una frattura trasversale, non geografica: tra una classe dirigente politico-amministrativa che è da sempre l’ossatura dello stato e un presunto “popolo” che non vuole più essere rappresentato da quelle che chiama élite: non le sembra ci sia anche questo problema? “Sì. Esattamente. Messe insieme, è ciò che io chiamo la fine del primo tempo del Risorgimento: la nascita dello stato nazionale non ha portato alla nascita degli italiani. E non ci siamo riusciti perché affidare questa operazione ad un apparato centralizzato è stato un grave errore”.

 

Chiarisca, prego. “Nel Risorgimento nessuno si poneva il problema di fare il popolo italiano. Il problema fu fare uno stato, i confini. Per farlo serviva un ‘potere’ italiano, una élite, non certo il popolo: fu l’alleanza di monarchia borghesia ed esercito a fare l’Italia. Il due per cento degli italiani. Ma per reggere, un potere così, e poi per reggere la nascita di una nazione, lo sviluppo, l’economia l’istruzione, eccetera, serviva uno stato accentrato in questa élite. Se l’idea federalista, che non era solo quella di Cattaneo, ma era anche l’idea di Cavour, avesse vinto nelle leggi di ordinamento del regno (1861), probabilmente la storia sarebbe stata diversa. Basta pensare che Napoli aveva una struttura statuale più forte del Piemonte, aveva addirittura uno spread minore del Piemonte. Ma non è andata così”. Per fare gli italiani è servita la scuola dell’obbligo, la leva obbligatoria. “Quando nel 1956 sono entrato in Consiglio comunale ho dovuto fare la prova di alfabetizzazione: sembra assurdo, avevo fatto la Bocconi, eppure è la storia italiana. Lo sa quel è stato il vero miracolo del Pci? Che gli operai avevano tutti in mano l’Unità, ma l’Unità era scritto nella lingua del liceo classico. Tutta la classe dirigente italiana, dal Risorgimento a oggi, è uscita dal liceo classico. Eppure, Dc o Pci, gli italiani hanno accettato, o subìto, di essere governati da quelli del liceo classico. Ecco, il 4 marzo ha dimostrato che quel modo centralizzato non esiste più”.

 

Due modi di intendere opposti: la Lega vuole lo stato per sé, il M5s vuole solo ottenere le risorse dello stato. Italie incompatibili

Però, come dire?, non esiste più in modalità diverse. Forze centrifughe. Come lo spiega? “La Lega vuole lo stato, ma lo vuole per sé. Il M5s vuole semplicemente i soldi dello stato. Due partiti che rappresentano due paesi e due modi di intendere lo stato incompatibili. La Lega, per quanto oggi sia cambiata, è ontologicamente attaccata a un modo di concepire la domanda politica e le strutture di risposta a quelle domande che non è quello meridionale. Il modo settentrionale è quello delle autonomie, dell’ente locale, della risposta amministrativa ravvicinata e controllata. Mentre l’idea del M5s è semplicemente la distribuzione delle risorse, per via burocratica centralizzata: senza del resto nemmeno chiedersi da dove vengano, le risorse. Noti una cosa: i cinque stelle non parlano mai di fiscalità, ma solo dell’uso delle risorse generate dal fisco”.

  

Insomma c’è la linea gotica delle due Italie. E in più la spaccatura tra popolo e élite: la gente non vuole più essere dominata dal liceo classico. E dunque? “Oggi la sfida alla politica è smettere di ragionare con schemi verticali, che postulano l’unità del riferimento (una società strutturata, con masse popolari subalterne e una classe dirigente politico-economica stabile, ndr). Si stanno creando forze politiche che vengono da una problematica che non è più quella liberale o da quella socialista, o quella corporativa dei democristiani. Non è che il Pd può ricomporre da sinistra il conflitto tra le élite e non élite, perché questo conflitto non è verticalizzabile”. Dunque, bisogna pensare a governare porzioni di territori che esprimono istanze diverse, e sapendo che il voto non serve più a selezionare la classe dirigente, ma per raccogliere le urla di quelli “che vanno in cabina per dire tiè”. Non facile.

   

“Ma è quello di cui bisogna prendere atto, È qui che bisogna avere il coraggio di iniziare a pensare in modo diverso. E se, come mi sembra accada adesso, non c’è nessuna forza politica in grado di farlo, bisogna mettersi a studiare, a pensare”. Ottima idea. In attesa di trovare interlocutori (Bassetti è ufficialmente fuori dalla politica politicata, ma pratica ancora il campo di gioco e i player li vede da vicino. Perciò sorvola e non dà giudizi) da dove si può cominciare?

  

“Innanzitutto sapere che istanze diverse chiedono rappresentanze e risposte diverse. Se ad esempio sono autonomista, chiedo il voto ai lombardi interpretando gli interessi della Lombardia, che ci siano i ricchi o i poveri. Ma se chiedo i voti ai laureati o agli imprenditori, li chiedo nell’interesse di uno strato o di una corporazione. Strategie diverse, obiettivi diversi. Come li tieni insieme? Non bastano più le diverse policy, servono politics diverse. Se la Lombardia non è la Calabria, bisogna riconoscere che guardiamo all’Europa in modo diverso. Le risposte da dare a un ceto produttivo sono diverse da quelle per un altro”. Uno stato centralizzato, impostato come quello italiano (Bassetti non si nasconde di certo i fallimenti del regionalismo che pure ha sostenuto e visto nascere) non è più in grado di rispondere: la spaccatura del voto dello scorso anno non è la risposta, ma è il segnale evidente. Allora, più che al modello di autonomia fiscale e di devoluzione di funzioni di cui si sta discutendo in questi giorni, bisogna pensare, ad esempio, a un sistema macroregionale. “Le problematiche sono troppo distanti. Persino se parliamo di corruzione, un lombardo o un meridionale sono diversi. Da noi il modello è sempre stato il cumenda con la bustarella, al Sud è una catena gerarchica, familista. Dunque, persino le forme di contrasto dovrebbero essere diverse”. Macroregioni, ma come? Bassetti non dettaglia il “sistema”, se qualche politico vorrà porsi il problema, lo farà. Ma conta il modello. E torna l’idea di un mondo globale, di reti che non sono più i confini nazionali: “Cosa chiede il mondo, l’Europa, al nord? L’industria, la ricerca, l’investimento reciproco in un mondo integrato, diciamo. Allora serve un sistema di governo che risponda a questo. A Beppe Sala non chiediamo di essere Aldo Moro, ma di far funzionare la mobilità. Ma per farlo bene, Sala ha bisogno di non stare a dipendere per tutto dai ministeri di Roma. Ma se sei a Benevento, poniamo, il problema della mobilità è relativo, e magari hai bisogno di un rafforzamento, con fondi pubblici, per la Sanità”. E al Sud il mondo cosa chiede? “Ad esempio di essere un hub per il Mediterraneo e l’Africa. Non di essere ‘il campo profughi’, ma di essere collegamento, infrastruttura di sviluppo. Ma per farlo, magari non serve l’autonomia come servirebbe a un’area metropolitana, o a una megalopoli come è l’area padana in cui siamo noi adesso, ma un piano strutturale pubblico serio”.

   

L’autonomia, il regionalismo, lo stato centrale. Bassetti ritiene che oggi bisogna ripartire a ragionare a partire dal civismo

L’ipotetica macroregione del Centro, è ovviamente qualcosa di più fluido, misto, se analizzata nelle condizioni sociali ed economiche. Anche solo dal punto di vista geografico o strutturale. Ma proprio sul Centro, Bassetti fa capire che il suo ragionamento non è soltanto politico-amministrativo, ma prova a chiamare in causa un’identità, una vocazione nazionale, culturale, territoriale, su cui una paese, una classe politica o dirigente dovrebbe provare a riflettere: “Il Centro è Roma, e Roma è il Papa”. Scusi, certo, ma quella è la Città del Vaticano, non l’Italia. “Certo, ma ognuno di noi sa che – nel mondo – quando gli altri popoli pensano a Roma, pensano alla sua funzione universalistica: Roma è la cultura, l’impero da cui è nata l’Europa, e Roma è il papato, con la sua rete di antenne e legami che più globale non si può. L’Italia rappresenta questo per il mondo. Altro che chiudersi. Ma deve ritrovare l’orgoglio di una capitale morale mondiale”.

    

Ha una sua idea, Piero Bassetti, su cosa voglia dire essere italiani, e non solo provvisori o scontenti cittadini-sudditi di uno stato nato 150 anni fa. Lui a “italiani” preferisce “Italici”. Ci ha scritto anche un libro (per il Mulino), “Svegliamoci italici! Manifesto per una cultura glocal”. Niente a che vedere con “gli italiani all’estero”, ma la consapevolezza che la diffusione delle lingue, delle culture, delle managerialità, delle aziende di matrice “italica” sono già di per sé una rete globale. Che va potenziata e sostenuta. “Ma chiunque di noi, qualunque dei nostri giovani o imprenditori viaggia o lavora all’estero sa che è così, ne fa parte. Semplicemente significa che essere l’Italia oggi non è più ciò che era dopo il Risorgimento”. Le sue idee le ha portate persino all’Onu, in un apposito organismo che si chiama Unaoc, United Nations Alliance of Civilization. Perché a Bassetti piace guardare lontano.

   

Ma per tornare al territorio più vicino, all’autonomia formato Fontana-Zaia, alla spaccatura politica e strutturale del paese, che cosa bisogna fare? “Serve partire dalla selezione di una classe dirigente che pensi così, in modo territoriale. E oltre i territori”, dice Bassetti, “Io sto battendomi per proporre il civismo, come modello diverso sia dal localismo sia dalla opposizione tra élite e populismo. Un modo di pensare la politica che riparta da dove si è, e che elabori soluzioni adeguate. Almeno come idee, ipotesi. Le liste civiche a qualsiasi livello possono essere luoghi di selezione di una classe dirigente capace di affrontare i problemi del paese”. Piero Bassetti guarda lontano, perché ha la vista lunga. Fin troppo per l’oggi. Però, prima o poi, qualcuno queste domande dovrà porsele.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"