Paolo Cirino Pomicino (elaborazione grafica Il Foglio da foto LaPresse archivio storico 1991)

"Questi fanno debito proprio come noi". Parla Pomicino

Salvatore Merlo

“Al governo ci sono gli allievi scarsi della mia finanza fatta in deficit”. O' ministro compare in Transatlantico e si specchia nel governo del cambiamento. “Magari ascoltassero me e Scotti”

Roma. “Mi accusano di aver fatto il debito pubblico, ma è esattamente quello che fanno loro oggi”, dice con gli occhi iniettati d’ironia. “Questi del governo sono come noi negli anni Ottanta”, aggiunge. E a questo punto il vecchio ministro andreottiano lascia seguire una pausa declamatoria. “Con una piccola differenza però… a quei tempi l’Italia cresceva del 2 per cento all’anno e noi dovevamo battere la super inflazione e il terrorismo”. Insomma Paolo Cirino Pomicino sta dicendo che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, i proconsoli del governo del cambiamento, sono all’incirca allegri come i governi del Caf, ma con settanta punti di debito pubblico in più e un deficit orientato “non agli investimenti bensì a far aumentare la spesa corrente”.

    

Sono le due del pomeriggio, nell’Aula di Montecitorio i deputati di maggioranza e opposizione s’accapigliano, mentre poco più in là, a Palazzo Chigi, il governo prepara una riunione turbinosa: la maggioranza vuole sfondare il tetto del deficit, approvare pensioni da 800 euro per tutti e stipendi di cittadinanza da 780 euro per chiunque non abbia un lavoro. Il bengodi, la cuccagna, il paese dei balocchi, l’albero degli zecchini. Ma il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, non è d’accordominaccia le dimissioni. Qualcuno nella Lega parla di sostituirlo. In un angolo c’è il sottosegretario grillino Vincenzo Spadafora: “O si fa il reddito di cittadinanza o Tria va a casa”. Boom. C’è persino chi si spinge a immaginare un interim per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. E allora, mentre il Documento di economia e finanza sparisce, ricompare, s’inabissa e fa di nuovo capolino nei meandri dei ministeri, ecco che in Parlamento si levano discorsi dall’aria drammatica e vagabonda. Alcuni deputati di Forza Italia attraversano il Transatlantico con la camicia slacciata, la cravatta larga e pendente: “Ma i leghisti non possono essere impazziti fino a questo punto. Così finisce male”.

    

In questo clima di sfacelo e di euforia, mentre i grillini esultano all’aumentare della spesa pubblica, ecco che lo spirito del tempo, il braccio sapiente del destino, o forse la divinità suprema che governa l’ironia delle circostanze, fanno comparire nel bel mezzo di Montecitorio l’ex ministro della programmazione economica del governo Andreotti VI, l’ex presidente della Commissione bilancio, l’uomo che segnò e incarnò e predicò il tempo felice dell’Italia che cresceva ma con le pensioni a 53 anni e le grandi aziende di stato quasi sempre in perdita.

      

Eccolo dunque Paolo Cirino Pomicino, piccolo, tondo e vitale. Percorre a passi rapidi il lungo tappeto che divide a metà la grande sala del Transatlantico. “Certo che darei dei consigli ai Cinque stelle”, dice. “Non avrei difficoltà alcuna. E non avrei nemmeno alcuna difficoltà a indicare loro dove trovare le risorse che apparentemente non riescono a recuperare nella manovra”.

     

Osservarlo è uno stordimento che somiglia al torpore febbricitante in cui Don Chisciotte vede comparire le illusioni. “Proprio l’altro giorno riflettevo su un fatto”, sorride. “E cioè che sono stato l’ultimo ministro economico di origine politica e non tecnica che abbia avuto l’Italia. Un giorno Guido Carli disse ad Andreotti, me presente, che ‘il governo dei tecnici è una illusione o una eversione’. Ma quando la politica accusa i tecnici di frenare, come fa Di Maio, ebbene in quel momento la politica testimonia soltanto la propria debolezza. Io da ministro avevo Monorchio alla Ragioneria generale dello stato, De Lise capo di gabinetto, Draghi direttore generale del Tesoro, e Ciampi alla Banca d’Italia. Facevamo delle riunioni ogni mese. Ma eravamo io e Rino Formica a dare le carte. I politici. Sempre. Solo che per dare le carte devi sapere le cose”. 

      

E allora O’ ministro spiega, con la condiscendenza usata verso il provinciale che viene portato a corte: “Se pensi che siano i tecnici a fermarti è perché tu non conosci i numeri, i bilanci, le alchimie che si possono combinare. Da che mondo è mondo i tecnici indicano i rischi delle scelte, ma poi le scelte le prendono i politici. Hanno bisogno di 100 miliardi? Io glieli troverei subito”, dice Pomicino, spiritosamente, con gli occhi che d’improvviso gli s’illuminano come lo schermo d’una calcolatrice, o forse quello d’una slot-machine. Anche se a far debito il governo del cambiamento – c’è da dire – sembra capace pure da solo, e senza bisogno di un aiuto competente.

    

“Ma davvero pensano di trovare le risorse tagliando le pensioni a quattro vecchi che prendono più di 4.500 euro di pensione? I soldi vanno cercati dove ci sono, non dove non ci sono. E’ tutto fuori misura e fuori logica. Qua non parlano di come aumentare le pensioni basse, ma parlano di come tagliare quelle alte. E’ tutto pazzesco. E anche farsesco. Alla fine saremo tutti più uguali, ma nella povertà. E la cosa deve spaventare. Perché quando la gente è già povera, può resistere in questa condizione per tutta la vita. Ma se al contrario s’impoverisce, allora perde la testa e diventa pericolosa. Anche noi da ragazzi volevamo fare la rivoluzione. Ma chiedevamo, leggevamo, ci informavamo, studiavamo, avevamo gente anche più anziana a cui rivolgerci”.

    

Eppure un mentore di rango i Cinque stelle ce l’hanno: Vicenzo Scotti. “Con Scotti siamo amici da quarant’anni. Eravamo insieme nella corrente andreottiana della Dc. Solo che lui, lui che Donat Cattin chiamava Tarzan, al congresso del 1984 ruppe con noi per contrapporsi a De Mita. Salvo poi, dopo il congresso, allearsi con De Mita. Un genio. Tarzan, appunto. L’ho anche chiamato al telefono recentemente per fargli i complimenti nel giorno in cui s’è formato il governo”. Perché per fargli i complimenti? “Gli ho detto: hai nominato il ministro della Difesa”. Chi? “Elisabetta Trenta, che è una professoressa della sua Università, la Link-Campus. ‘Bravissimo!’, gli ho detto a telefono. Lui però si è adombrato. Ma io sul serio penso che Scotti sia ammirevole. A ottantacinque anni continua a fare quello che faceva quando ne aveva quaranta”.

     

Scotti è molto persuasivo e denso nello spiegare la sua fascinazione per il fenomeno del cambiamento grillino. “Guardi che Scotti non crede a una parola di quelle che dice sui Cinque stelle”. E lei come lo sa? “Perché lo conosco”. Ma è convincente. “Certo che è convincente. E’ un democristiano, mica un grillino. Purtroppo però non è vero nemmeno che consiglia i Cinque stelle. D’altra parte se il patrimonio di Scotti fosse stato messo al servizio di questi ragazzotti, si vedrebbe”. Ovvero? “Non credo che avrebbe mai suggerito loro di minacciare il mondo intero: l’Unione europea, i nostri alleati storici, l’Onu, il ministro dell’Economia, i funzionari del Mef, persino il presidente della Repubblica. Se Salvini avesse seguito Di Maio sulla storia dell’impeachment a Mattarella, saremmo andati incontro a una crisi istituzionale gravissima. Il M5s è questa roba qua. E’ l’autoritarismo, l’estrema destra. Poi certo c’è anche il folclore, c’è Toninelli… Questi ragazzi non coltivano la saggezza del dubbio, esprimono soltanto l’orgoglio delle certezze. Esprimono atteggiamenti continuamente intimidatori che vanno ben oltre il bullismo di Salvini”.

     

Perché Salvini è diverso? “Ha un tono esagerato, ma impone dei problemi che esistono come l’immigrazione. Guida un partito che ha venticinque anni di storia parlamentare, una classe dirigente formata nei comuni, nelle province, nelle regioni. La Lega è un partito strutturato. Nel M5s ci sono invece soltanto un ‘capo politico’ e un ‘santone’ che decidono cos’è il bene e cos’è il male”.

    

Intanto il sole comincia a calare su Montecitorio, mentre da Palazzo Chigi arrivano segnali distensivi: la spesa in deficit aumenterà, ma non troppo, dicono. E Tria non si dimette. Anche Pomicino allora sfuma nella penombra, si allontana come un sogno, una visione o forse un miraggio, con le ultime parole, un vaticinio, una parabola che precipita dal fondo remoto dell’Italia allegra degli anni Ottanta: “La spesa in deficit di per sé non è perversa. Solo che stavolta questi raddoppiano la disoccupazione e anche il debito”. Ed è come se volesse dire che i ragazzi del cambiamento sono troppo scarsi persino per indebitarsi nella maniera corretta, professionale.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.