Da sinistra Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Matteo Salvini (foto LaPresse)

La manovra della propaganda di Salvini e Di Maio

Valerio Valentini

Deficit al 2,4 per cento: i grilloleghisti, preoccupati più dal rincorrersi l'uno con l'altro nelle che non dalla tenuta dei conti, esultano. Il ministro dell'Economia nell'angolo: per ora niente dimissioni

La notizia arriva improvvisa, per certi versi inaspettata, quando sono passate le nove di sera da pochi minuti. “Accordo trovato: 2,4”, esultano all'unisono Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Ma era evidentemente la soluzione a cui si lavorava da ore, in un crescendo di tensione tra i vertici di Lega e M5s (soprattutto M5s) e il ministro dell'Economia Giovanni Tria. Tensione dissimulata a lungo, però, visto che per ore, sin dal pomeriggio, gli uomini più vicini ai due vicepremier parlavano di "un dialogo sereno", di "mancanza totale di fibrillazioni". Che invece ci sono state, se è vero che Tria è stato costretto a rivedere i conti, aggiornando le sue tabelle in virtù della fermezza dei suoi interlocutori.

 

Una prima riunione ristretta poco prima delle 17, a Palazzo Chigi: è li che il titolare dell'Economia capisce che l'1,9 per cento da lui proposto non verrà mai accolto. Proseguono intanto i colloqui paralleli, vi viene coinvolto anche Paolo Savona, ministro per i Rapporti con l'Ue. Tria esce da Palazzo Chigi e ci ritornerà un paio d'ore dopo. Ancora trattative. Fino alla fine, trapela l'intenzione di accettare, come punto di caduta ragionevole un po' per tutti: un 2,2 su cui anche Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, suggerisce di mettere una firma. E invece no: i due vicepremier non ci stanno. Alle 21, quando il consiglio dei ministri vero e proprio sta per iniziare con oltre un'ora di ritardo - segnale pure questo, di uno scontro che è stato concreto -, Salvini e Di Maio dettano alle agenzie una nota congiunta: 2,4. Tradotto: “Abbiamo vinto”. 

 

E' la manovra del cambiamento, dicono. E' la vittoria del coraggio, nella retorica grilloleghista. E subito parte l'elenco dei risultati ottenuti (forse soltanto degli abbozzi di misure buoni per strappare i titoli di giornale, ma tant'è): e allora “dieci miliardi per il reddito di cittadinanza”, “pensioni di cittadinanza”, “un miliardo e mezzo per il risarcimento ai truffati dalle banche (sic)”. Il più entusiasta è Di Maio, che mette il cappello anche sul superamento parziale della legge Fornero. La Lega porta a casa la flat tax (o meglio: allargamento del regime forfettario al 15 e al 20 per cento).

 

A quel punto l'osservato speciale diventa Tria. Si dimetterà? Non pare. Anche perché - ma è più una voce di corridoio, rimbalzata tra le redazioni - “sarebbe stato dissuaso dal Quirinale”. Di certo non è il risultato che sperava di ottenere. Ci si è arrivati, pare, per la fermezza di Di Maio. Irremovibile dal suo proposito: più che una cifra esatta, il ministro dello Sviluppo ha preteso tutte le misure di matrice grillina. Al punto che, quando Giorgetti sembrava intenzionato a venire incontro alle richieste di Tria, Di Maio avrebbe posto una sorta di ultimatum: se volete scendere, rinunciate a qualcosa di vostro. Anche Tria, trascinato nella baruffa, ha provato a indicare un compromesso: ma per far quadrare i conti intorno al 2 per cento, si sarebbe dovuto tagliare sulle pensioni, il superamento della Fornero rimaneva in bilico. E' stato lì che Salvini, forse preoccupato innanzitutto dal rischio di apparire più molle dell'alleato, e non dalla sostenibilità della proposta nel suo complesso, ha sposato la linea della fermezza. E 2,4 sia. Festeggiano, allora, i grilloleghisti. I conti pubblici, evidentemente, contano meno della propaganda.