L'ingresso della sede del ministero dell'Economia a via XX Settembre (foto Imagoeconomica)

La guerra ai guardiani del Mef

Giuseppe De Filippi

Prima Casalino, poi la manovra del balcone. Mai così lontani il governo e la Ragioneria dello stato

Magari c’è la tentazione di metterli in riga quelli della Ragioneria e del Mef, politicizzarli di brutto, trasformarli in portavoce come se fossero parlamentari grillini, asservirli a Rocco Casalino, ma poi chissà se servirebbe. Lo faranno, intendiamoci. Il progetto è quello e se il governo va avanti, come ha addomesticato le perplessità di Giovanni Tria, potrà, gradualmente, inserire nuovi nomi nei ruoli centrali della grande burocrazia di stato. Lo faranno, ma poi se ne pentiranno. Perché un ufficio

I loro precedenti rifiuti e la loro mancanza di accondiscendenza hanno colpito senza distinzioni i governi della Seconda Repubblica

indipendente che controlla la congruità tra progetti legislativi e conti dello stato non sarebbe sostituibile e verrebbe presto rimpianto. E ricordiamoci che a un secondo dalla diffusione del famoso audio si è subito aperto il dibattito sulle reali intenzioni della comunicazione a 5 stelle. Immaginando che non fosse una voce rubata ma che si trattasse di un testo volutamente diffuso per mandare vari segnali. Non solo quello ovvio di intimidazione ai funzionari della Ragioneria ma anche, secondo un copione ricorrente, il tentativo di predisporre una scusa in caso, molto probabile, di insuccesso nella realizzazione del programma assistenzialistico e nel mega voto di scambio costruito sul reddito di cittadinanza (cari elettori, prendetevela coi cattivi tecnici del ministero e non con noi) o perfino un segnale agli alleati leghisti per stoppare qualunque idea di intervento unilaterale su posizioni e nomine. Che poi, da parte della maggioranza dei due populismi, avrebbe senso anche un po’ di riconoscenza verso gli inflessibili contabili della Ragioneria. I loro precedenti rifiuti e la loro mancanza di accondiscendenza hanno colpito senza fare distinzioni i governi della Seconda Repubblica, contribuendo, ma senza averne ovviamente l’intenzione, alla grande crisi di consenso che ha colpito in generale le forze di governo a favore dell’antipolitica militante.

 

Romano Prodi voleva portare gli uffici chiave della politica economica a Palazzo Chigi. L’operazione, e il dio dell’efficienza governativa gliene renda merito, gli riuscì con il Cipe, che effettivamente è il braccio operativo dell’amministrazione per le principali spese di investimento. Ma non gli riuscì, e meno male in questa occasione, con la Ragioneria. Probabilmente Prodi aveva le migliori intenzioni ma la mancanza di separazione tra guida del governo e custodi del bilancio sarebbe stata deleteria. L’accostamento non faccia arrabbiare nessuno, ma ricordiamo che se all’origine della crisi greca ci fu la certificazione di bilanci non veritieri, con cui Atene riuscì a ottenere l’ingresso nel club dell’euro e tutti i successivi vantaggi (a doppio taglio) in termini di tassi di interesse, fu anche perché nell’assetto istituzionale greco non era previsto all’epoca un ufficio indipendente e autorevole col compito di controllare la congruità tra leggi di spesa e saldi dei conti pubblici. A Prodi poi fu reso particolarmente travagliato il cammino del suo progetto di riduzione del cuneo fiscale.

 

 

Luigi Di Maio e i ministri del M5s festeggiano l'approvazione del Def sul balcone di Palazzo Chigi (foto LaPresse)

 

Silvio Berlusconi aveva aperto un suo personale contenzioso con quello che televisivamente chiamava il “Signor No”, ed era il Ragioniere generale, ma poi, con la abituale capacità di gestire i rapporti, aveva anche saputo trovare aspetti di utilità politica proprio in quella sponda così arcigna dell’amministrazione dello stato, diventata fornitrice di dinieghi da opporre, tatticamente, anche agli alleati petulanti. E per Matteo Renzi il rapporto con la Ragioneria è stato una specie di epopea. Sia gli 80 euro, sia il jobs act, avrebbero avuto tutt’altra forma senza il passaggio micidiale per la Ragioneria. E avrebbe visto la luce, ma invece non successe, anche una sostanziosa riforma previdenziale targata Renzi. Altro che le cafonaggini minacciose di Casalino, Renzi avrebbe avuto ragioni politiche per andare al secondo piano del ministero dell’Economia a tirar giù i tavoli. Per due volte, a quanto si sa, il ragioniere generale Daniele Franco è stato convocato a Palazzi Chigi ad ascoltare le reprimende di Renzi e le richieste di cambiare il modo di operare, ma nessun cedimento sostanziale ebbe luogo. I confronti duri finivano appaltati a Tommaso Nannicini e, nelle questioni che toccavano la tenuta dei conti, era sempre Franco ad avere l’ultima parola.

 

Queste però sono le contrapposizioni davvero abituali, che fanno parte del gioco istituzionale, aprendo anche, come si diceva nel caso di Berlusconi, la possibilità di trasformare gli arcigni custodi del bilancio in alleati nel confronto interno alle maggioranze di governo, oltre a valorizzarne il ruolo di garanti a fini finanziari. Perché la prima condizione per andare sul mercato a piazzare ogni mese le note ingentissime quantità di titoli italiani è che il bilancio pubblico sia sufficientemente veritiero e ritenuto tale dall’esterno.

 

Lo chiamano il ministro aggiunto: se un governo ha 20 ministri il Ragioniere è il ventunesimo, ma come peso nelle decisioni è il quarto

Ora qualcosa è cambiato, non tanto per il non uso di mondo di Casalino e per la sottolineatura successiva delle sue parole da tutti i peones a 5 stelle e poi da Luigi Di Maio. Il problema ora non è tanto quello di opporsi a misure che non fanno quadrare i conti o limarne altre per le parti che non meriterebbero la famosa bollinatura (a proposito, in realtà si tratta di un timbro che imprime nella carta una grafica quasi leziosa o, a voler fare i complottisti, vagamente massonica). Adesso il problema è che proprio non si capiscono più. Nessuno, nel passato, aveva immaginato la richiesta di trovare coperture senza indicare almeno il settore in cui andare a cercarle. Né erano mai stati presentati decreti per i quali era completamente carente la parte finanziaria.

 

Con la manovra del balcone siamo al punto di massima distanza tra uffici della Ragioneria e governo. Ma nel momento in cui si va a coprire spese con deficit la Ragioneria è quasi costretta ad alzare le braccia. Per capirci: il deficit, il maggiore indebitamento, è una forma di copertura e finanziamento e anche gli uffici tecnici, ovviamente, devono prenderla per buona. A copertura della tale spesa andrà una quota di maggiore indebitamento, e tanto basta, perché è stato autorizzato in legge di stabilità e quindi trasferito nel bilancio dello stato. La manovra del balcone si premura poi di stabilire che quell’ormai famoso 2,4 per cento del prodotto interno come livello del deficit consentito sia raggiunto anche nel 2020 e 2021. Insomma la Ragioneria e tutti gli altri hanno le unghie spuntate.

 

 

Il ragioniere dello Stato, Daniele Franco, e, a destra, il ministro dell'Economia, Giovanni tria (foto Imagoeconomica) 

 

Gli altrettanto famosi “10 miliardi del cazzo” non li hanno trovati i tecnici (e come potevano loro che al massimo possono cercare all’interno del bilancio in vigore?) ma li hanno inventati e resi utilizzabili i ministri balconati semplicemente attingendo, come da espressione dimaiana, al deficit. I freni politici non sono serviti a niente, non hanno funzionati, anche l’elettorato leghista, ritenuto a volte vicino al mondo dell’impresa e quindi teoricamente avverso allo sfondamento dei conti pubblici (se non altro per il timore di futuri aggravi fiscali), non ha mandato segnali di intensità percepibile. E Matteo Salvini ha potuto intestarsi anche lui, senza remore, la manovra del popolo, anche se le bandiere che sventolavano sinistramente sotto Palazzo Chigi erano tutte bianche e stellate e anche se di riduzioni delle tasse con qualche impatto non se ne vedranno nel 2018 (a proposito, se saltassero le detrazioni sulle rate dei mutui i leghisti farebbero fatica a tenere buoni i loro elettori) mentre sembra più probabile che si realizzi, prima delle europee, qualche elargizione diretta e intestazione di reddito di cittadinanza, con presumibile pubblicazione del cedolino di pagamento sul Fatto. Marzo, a quanto si sente dire al ministero dell’Economia, potrebbe anche essere il mese in cui Daniele Franco, pressato e messo in un angolo, decida di lasciare. E anche le dimissioni, ormai tardive e meno esplosive, dello stesso ministro Giovanni Tria potrebbero arrivare con i primi mesi del 2019.

 

 

Ma restiamo all’oggi. La manovra del balcone, e c’è da immaginare che nel passaggio parlamentare prenda altre balconate, andrà comunque in vigore nel 2019. La Ragioneria ora resta impegnata nella chiusura del 2018 e nel controllo di conformità al bilancio dei decreti di spesa da qui a fine anno. Daniele Franco certo non cambierà carattere. Resterà chiuso e schivo, come lo descrivono anche i suoi amici e le persone che sanno di avere la sua stima. Il riferimento che viene fatto spesso è un po’ troppo banalmente geografico e culturale: per spiegare tutto del suo carattere ti dicono che è di Belluno. Va bene, ma non facciamoci prendere la mano da queste banalizzazioni. Anche perché si conoscono veneti espansivi e amabili, anche dell’interno, in percentuale simile al resto del paese. E comunque Franco è a Roma dalla fine degli anni 70, con una pausa a studiare a York, e allora il suo carattere potrebbe essere stato plasmato ancora di più nella grande città, e dovremmo parlare di un’ombrosità capitolina.

 

Il punto è che forse appartiene a un mondo che tende a dialogare poco con chi non fa parte del suo gruppo originario, cioè nella squadra di chi è entrato in Banca d’Italia con modalità di selezione che ne facevano dei prescelti. Si accedeva giovanissimi, con i primi contatti durante gli anni universitari, e poi al successivo perfezionamento degli studi provvedeva direttamente la Banca, creando una vera classe dirigente, certo, ma ponendola anche un po’ fuori da certe dinamiche dure e faticose con cui dovevano confrontarsi i coetanei di Franco nei primi anni 80.

 

I custodi del bilancio oggi hanno le unghie spuntate. Marzo potrebbe essere il mese in cui Daniele Franco decida di lasciare

Il suo arrivo alla Ragioneria su impulso di uno dei tanti ministri di provenienza Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, e durante il governo di Enrico Letta, testimonia del mantenimento di rapporti speciali di fiducia unita a considerazione reciproca tra chi è passato a Palazzo Koch. Arrivava dopo il meno caratterizzato e il meno caratteriale Mario Canzio, colpito, nei suoi ultimi mesi nell’incarico di Ragioniere generale, da critiche esplicite e straordinariamente pesanti per chi ricopre un ruolo sì importante (lo chiamano il ministro aggiunto, se un governo ha 20 ministri il Ragioniere è il ventunesimo, ma come peso nelle decisioni è il quarto) ma non troppo visibile per l’opinione pubblica. Ebbene nel 2013 a Canzio, anche con editoriali del Corriere della Sera, viene data parte della responsabilità per una spesa pubblica non diminuita ma aumentata. E ricordate che si usciva dal biennio della crisi più dura e delle dichiarazioni più impegnative sul contenimento della spesa. La sorpresa di uscite che, malgrado tutta l’austerità dichiarata, continuavano a correre, fu rovesciata, come imputazione politico/tecnica a Canzio. E si creavano i presupposti per l’arrivo di un esterno, come Franco, e di un esponente della filiera Bankitalia. Ma, appunto, era ancora un altro mondo rispetto alle follie pro-spesa dei ministri balconati. Il mondo ordinato di Enrico Letta e Saccomanni sarebbe stato prima travolto dal renzismo, lasciando però in piedi (grazie alle garanzie e alle tutele insite nella carica) Franco, e poi sarebbe arrivato il Salvini scassa-pensioni e il Di Maio scassa-lavoro.

 

Alla Ragioneria contro chi smonta le riforme non possono fare niente. Non sono un’agenzia di rating o una direzione della Commissione europea. Non potevano, e probabilmente loro dispiaceva, valutare gli effetti sulla crescita delle riforme renziane (mercato del lavoro, pubblica amministrazione, scuola) e inserirli nelle valutazioni sulla compatibilità dei provvedimenti di spesa. Allo stesso modo non possono inserire valutazioni negative perché magari le stramberie del governo legastellato avranno l’effetto di frenare il mercato del lavoro, bloccare le opere pubbliche, fermare i cantieri, appesantire consumi e investimenti.

 

Nessuno, nel passato, aveva immaginato la richiesta di trovare coperture senza indicare almeno il settore in cui andare a cercarle

Devono accettare la politica economica così come è scritta e realizzata, ma, calando sul singolo provvedimento, diventano fondamentali quando si tratta di portare qualcosa a compimento. Lo ha ricordato in tv Carlo Calenda, dicendo che per i suoi progetti di sostegno agli investimenti delle imprese aveva un confronto continuo con Daniele Franco, sia come guida per non sbagliare in sede di preparazione degli interventi, sia come mossa preventiva per evitare di impantanarsi nella fase di realizzazione. Adesso si è scelta un’altra strada. La manovra dà al governo gli strumenti per saltare gli argini della Ragioneria attraverso il ricorso all’indebitamento. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ha interpretato, correttamente, il suo ruolo come garante della stabilità dell’Istituto anche contro le decisioni politiche, dopo la manovra ricorda che questo è un governo “non previdente”, e ha detto tutto. Ma anche lui, se gli rovesciassero addosso le nuove regole per mandare in pensione in un anno i famosi quattrocentomila citati da Salvini, si troverebbe ad essere saltato dalla politica: dovrebbe applicare le regole, ovviamente, e nello stesso tempo certificare l’imprevidenza. L’argine non può reggere contro chi non rispetta le regole di base. Non illudiamoci, non possono essere i burocrati, per quanto bravi, seri e solidi, a fermare l’arroganza, a negare per più di qualche giorno i 10 miliardi dell’insistente Casalino. Verranno saltati e poi rimpianti, quando qualcuno si accorgerà che i 10 miliardi non ci sono più.