Luigi Di Maio e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Non si scherza con il deficit di credibilità

Claudio Cerasa

Il cambiamento è il declassamento. La manovra, il ponte, Tria. La regola sfascista è che i contratti non valgono. Perché l’approccio scelto sulla legge di Stabilità potrà fare l’interesse di Salvini e Di Maio ma non quello degli italiani

A prescindere dal destino della legge di Stabilità, l’assedio organizzato dal Movimento 5 stelle e dalla Lega contro il ministro dell’Economia non è stato solo un tentativo (riuscito) di forzare il muro del rapporto tra deficit e pil ma è stato prima di tutto un tentativo di dimostrare qualcosa di più, ovvero che una delle caratteristiche principali del cambiamento sovranista è il rispetto della regola secondo cui non ci sono regole da rispettare.

 

Nella grammatica populista, il non rispettare le regole è l’essenza più genuina della dottrina sfascista e chiunque abbia costruito la propria identità antisistema sulla base della negazione del passato alla fine è inevitabilmente costretto a trovare un modo per non tradire la propria missione, anche a costo di mettere la credibilità personale su un piedistallo più alto rispetto alla credibilità di un paese.

 

La logica con cui, nella costruzione della legge di Stabilità, è stato negato il principio che un paese molto indebitato debba compiere ogni anno un passo in avanti per dimostrare ai suoi creditori di essere affidabile nonostante la montagna di debiti sulle proprie spalle è la stessa logica che ha portato il governo a calpestare lo stato di diritto dopo il crollo del ponte di Genova, a rimettere in discussione i contratti sulla Tav, a rimettere in discussione i contratti sul Tap, a rimettere in discussione i contratti di lavoro e che ha portato il governo a essere a un passo dal far saltare il contratto a Taranto con i giganti dell’acciaio. Quando la clausola di rescissione di un contratto presenta costi troppo elevati (vedi il caso Ilva ma vedi anche lo sforamento del 3 per cento) capita che anche lo sfascista più incallito si possa rendere conto che una cosa è minacciare di rompere un contratto, un’altra poi è romperlo davvero.

 

Ma ciò di cui non si rendono conto i professionisti della rottura che oggi si trovano malauguratamente al governo è che in un paese come l’Italia per mettere in discussione la sua affidabilità e la sua credibilità non è necessario arrivare a rompere un contratto ma a volte è sufficiente minacciare semplicemente di farlo. I cento punti in più di spread rispetto alla passata legislatura che da qualche mese pesano sulle casse dello stato – e che peseranno per circa tre miliardi di euro sulla legge di Bilancio – si sono andati ad accumulare nel momento stesso in cui gli azionisti di governo hanno lasciato intendere di essere intenzionati a non fare tutto il necessario – whatever it takes – per difendere il contratto che ci lega all’euro e l’approccio orientato a sfidare le regole scelto dalla Lega e dal Movimento 5 stelle sulla legge di Bilancio a prescindere dai decimali in più di deficit indicano una strada che non promette nulla di buono per un paese che per evitare di vedere declassati a un passo dal livello spazzatura i propri titoli di stato avrebbe la necessità di rafforzare ogni giorno la sua affidabilità.

 

Ma la ragione per cui violare le regole rischia di essere oltre che sbagliato prima di tutto autolesionista è legata a un tema che si intreccia con l’approccio scelto da Salvini e Di Maio sul dossier dell’immigrazione. Giocare con il deficit, e di conseguenza con il debito, in una fase in cui la nostra economia è in regressione ma non in recessione equivale a indicare un percorso destinato a far tremare i polsi a chiunque voglia investire nei prossimi anni in Italia: ma se il nostro paese non si occupa di risolvere i suoi problemi quando le cose vanno bene, come si può pensare che lo faccia qualora le cose dovessero andare male e qualora cioè dovesse subentrare un qualche imprevedibile choc negativo? Lo stesso ragionamento, se ci pensiamo bene, vale quando parliamo di migranti e il motivo per cui l’approccio scelto anche qui in Europa dal governo del cambiamento (delle regole) rischia di essere controproducente è legato al fatto che trasformando ogni sbarco in un’emergenza e creando costantemente delle crisi politiche dal nulla e alleandosi con gli alleati sbagliati Salvini e Di Maio stanno sprecando la possibilità di trovare un buon accordo a livello europeo per gestire la prossima crisi dei migranti in un modo più ordinato e più solidale rispetto a quanto fatto dai predecessori nel 2015. Ci sarà tempo per approfondire i dettagli della manovra ma l’idea di trasformare ogni regola in una regola da violare – che sarà anche l’idea della prossima campagna elettorale: addio Schengen? – è destinata a dimostrare che la natura sfascista degli sfascisti non si può cambiare e che il patto di governo firmato a maggio da Salvini e Di Maio più che essere pensato come un contratto con gli italiani è stato pensato per essere un contratto che forse potrà fare gli interessi di Salvini e Di Maio ma che difficilmente potrà fare l’interesse degli italiani.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.