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Manifesto contro la politica on demand

Claudio Cerasa

Il dramma di una società complessa governata da risposte immediate. La pazienza è l’antidoto al metodo dello scalpo

Dare delle risposte molto semplici a problemi molto complessi è una delle caratteristiche più importanti della retorica populista ma se vogliamo provare a capire meglio perché oggi in occidente il pensiero forte rischia di essere velocemente sostituito dal pensiero semplice occorre fare un piccolo sforzo di fantasia, dimenticare la dialettica tra apertura e chiusura, mettere da parte le nostre convinzioni sulla ritirata delle élite, toglierci dalla testa Salvini, Di Maio, Trump e Macron e concentrarci per un istante su una parola importante utilizzata lunedì scorso da Mario Draghi per spiegare con quale atteggiamento i grandi e piccoli paesi europei avrebbero il dovere di osservare il futuro dell’Eurozona: la pazienza.

 

Il governatore della Bce ha parlato di “pazienza”, oltre che di “prudenza” e di “persistenza”, per ragionare intorno alle scelte di politica monetaria che verranno adottate nei prossimi mesi dalla Banca centrale europea. E in modo forse involontario, ha costretto a farci riflettere su uno dei guai più importanti della società aperta, che riguarda uno spettro di problemi che va dalla dialettica tra elettori ed eletti, che arriva al rapporto tra genitori e figli e che coinvolge anche il nostro modo di relazionarci con la tecnologia. Un problema che è sintetizzabile con un tema che suona più o meno così: la nostra incapacità di sapere aspettare.

 

L’epoca della disintermediazione non ha generato solo una disaffezione progressiva verso i corpi intermedi, e verso ogni forma possibile di mediazione, ma ha fatto crescere sempre di più nelle nostre società, e nelle nostre famiglie, una necessità di avere delle risposte letteralmente immediate. E quando ti sei abituato ad avere tutto immediatamente, non ottenere quello che vuoi in un istante diventa non una semplice attesa ma un affronto alla razionalità. La nostra incapacità di sapere aspettare, e la nostra incapacità di avere pazienza, la viviamo ogni giorno sulla nostra pelle quando ci rendiamo conto di non essere in grado di finire una pagina di un libro senza aver prima consultato ogni nuova notifica ricevuta sul telefono, quando diventiamo pazzi per un minimo ritardo nella consegna di un pasto, per un wifi che non funziona per qualche secondo, per una canzone che fatica a caricarsi su Spotify, quando pensiamo solo per un attimo a che reazione avrebbero i nostri figli se gli dicessimo che per ascoltare una canzone del cuore bisogna avere la pazienza di sentirla suonare alla radio, che per guardare una fotografia fatta con il nostro telefono occorre avere la pazienza di andare a sviluppare il rullino, che per guardare un’altra puntata del proprio cartone preferito è necessario avere la pazienza di aspettare un giorno.

 

La morte della pazienza, se proiettata nell’universo della politica ha però degli effetti molto negativi che colpiscono al cuore il corretto funzionamento di una sana politica intesa come esercizio di tolleranza e di lento compromesso. Le risposte immediate non possono essere troppo meditate e anche per questo la necessità di offrire agli elettori soluzioni sempre più facili, immediate, a problemi complessi, e spesso non immediati, porta inevitabilmente a farti concentrare più sui capri espiatori che sulle soluzioni. La stagione della politica on demand, dominata dal deficit di pazienza, è quella che porta a dire a un presidente del Consiglio “non possiamo aspettare i tempi della giustizia”, è quella che porta un ministro a presentare in fretta “decreti risolutivi” congegnati senza avere idea delle coperture, è quella che porta un vicepresidente del Consiglio a promettere “la fine della povertà” contestualmente con la presentazione di una manovra, è quella che porta a immaginare complotti di ogni genere solo per giustificare la necessità di dover attendere magari del tempo prima di veder realizzate alcune promesse, è quella che porta a far saltare un negoziato per questioni legate più alla difficoltà di giustificare i tempi di un negoziato che al merito del negoziato stesso, è quella che porta ad alzare le pene per affrontare un problema di grande impatto sociale, è quella che porta a considerare ogni problema risolvibile nel tempo in un allarme da risolvere all’istante, è quella che porta a chiedere lo scioglimento di un partito solo perché ha perso un’elezione, è anche quella che ci porta a considerare istintivamente un bluff un qualsiasi Cristiano Ronaldo che ci mette 180 minuti prima di segnare un gol in serie A.

 

“Vivere nella società della comodità totale – come scritto a luglio dallo Spectator in uno splendido editoriale dedicato proprio a questo tema, “The lost art of patience” – ha naturalmente molti vantaggi ma questa comodità paradossalmente ci sta facendo diventare persone cattive, intemperanti e pigre”.

 

La sostituzione del pensiero forte con il pensiero semplice è la spia di un guaio che riguarda la nostra incapacità di ragionare con una logica diversa rispetto a quella della immediatezza e la drammatica prevalenza dell’impazienza è un fattore con il quale dovranno fare i conti anche professionisti della semplicità come Salvini e Di Maio quando il giorno dopo la legge di Stabilità scopriranno probabilmente che la povertà non sarà stata abolita per decreto. Pensare di abolire per decreto l’impazienza è come pensare di bloccare la disintermediazione ma una volta messo a fuoco il problema, compito di una buona classe dirigente e di una buona classe giornalistica dovrebbe essere quello di far proprie le parole di Mario Draghi e di ricordare che la vera sfida della società aperta oggi prima ancora di combattere il populismo è quella di governare l’impazienza provando a far diventare l’attesa non un vizio ma una virtù. Vale quando parliamo di educazione in politica. Ma vale anche quando parliamo di educazione in famiglia. Pazienza, prudenza, persistenza. Per salvare la società aperta forse conviene ripartire anche da qui.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.