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Voce grossa, risultati pochi

Redazione

Perché la dura realtà del Def è un peso più per Di Maio che per Salvini

Da che parte penda la bilancia, lo si capisce in fondo dal diverso tasso di nervosismo. A poche ore dalla presentazione della nota di aggiornamento al Def, nel quartier generale della Lega vige la rassegnata serenità di chi s’è messo l’anima in pace: “La coperta è corta”, ammettono i contabili del Carroccio che lavorano alla manovra. E insomma “tolte le clausole sull’Iva, tolte le spese indifferibili, pure ottenendo da Giovanni Tria un rapporto deficit/pil al 2,1 o 2,2 per cento, avremo a disposizione sette o otto miliardi”. Assai poco per realizzare i miracoli promessi.

 

Ma se i leghisti fanno buon viso a cattivo gioco, i vertici del M5s continuano a fare la voce grossa, costretti ormai dall’improvvido Rocco Casalino a perseguire in una scriteriata guerra a oltranza con la struttura interna del Mef : “Basta rigore, occorre puntare sugli investimenti, l’Europa deve ascoltarci”. Così non sarà, anche perché Tria ha fatto capire che, se proprio bisognerà ottenere da Bruxelles qualche concessione, dovrà essere il premier Giuseppe Conte a ottenerla. “Il che significa obbligarci a una strada in salita”, ammettono i grillini. Che anche per questo scalpitano, si affidano alla propaganda più vuota (“Nella Manovra del Popolo prima vengono gli ultimi”, titolava ieri il Sacro Blog), insistono nel promettere quando invece sarebbe più saggio iniziare a ridimensionare le aspettative. Tanto più che i leghisti, con malcelata perfidia, capiscono il momento e allora punzecchiano. “Le pensioni di cittadinanza a 780 euro? Mio padre che ha versato contributi per 40 anni non le capisce”, dice il viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia. “Il reddito di cittadinanza? Potrebbe essere legato all’Isee o potrebbe essere un incentivo all'occupazione”, aggiunge il sottosegretario Guido Guidesi. “Questione di equità sociale”, chiariscono nel Carroccio: chi non ha versato contributi o chi ha tre case, perché dovrebbe ricevere questi sussidi? Vero. Ma è vero pure che nella Lega comincia a esserci parecchia insofferenza per l’incapacità di Luigi Di Maio di ricalibrare la portata delle sue richieste.

 

La flat tax ha ormai quattro o cinque aliquote, e sarà per una platea ristretta; la “quota cento”, realizzata coi fondi privati di solidarietà, sarà a impatto minimo (“Un miliardo e mezzo”, confidano i leghisti). Perché, allora, il reddito di cittadinanza non può essere un semplice potenziamento del Rei, o una rimodulazione complessiva dei vari sussidi alla povertà? E del resto sarebbe questa l’unica via per convincere Tria: il quale non ha mai fatto mistero di nutrire assai più dubbi sulla proposta-bandiera del M5s che non su quelle leghiste.