Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Il ministro senza memoria. Tra “assassini politici” e controriforme del lavoro

Pietro Ichino

Le parole di Di Maio sono le stesse in nome delle quali le Brigate Rosse ammazzavano i consiglieri del ministero che adesso presiede

L’invettiva di Di Maio contro “gli autori del Jobs Act”, additati come “assassini politici”, segna un improvviso abbassamento ulteriore del livello, già molto basso, del confronto politico in Italia. Per due motivi di natura molto diversa.

 

Il primo e più immediatamente evidente è che l’invettiva viene dal capo di un dicastero la cui storia è profondamente segnata da assassini politici veri, in carne e ossa. Bagnata, nell’arco di un tragico quarto di secolo, dal sangue dei suoi stretti consiglieri Gino Giugni, Filippo Peschiera, Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, feriti o uccisi in esecuzione di “sentenze del popolo” verbalizzate in deliranti “rivendicazioni” siglate con la stella a cinque punte, che li condannavano per la stessa imputazione che il ministro del Lavoro attuale muove agli “autori del Jobs Act”. Ma, appunto, ora a muovere quell’accusa che chiama violenza non è un ciclostilato redatto da schegge impazzite, bensì un ministro della Repubblica. Che evidentemente ignora del tutto la storia recente del suo paese.

 

Il secondo motivo per cui questo downgrading del confronto politico è molto preoccupante sta nel fatto che il ministro del Lavoro, qualificando le scelte compiute nella legislatura precedente in materia di ammortizzatori sociali come un “assassinio politico”, e facendo questo per preparare il terreno mediatico all’azzeramento di quelle scelte, cioè a un puro e semplice ritorno indietro alla situazione precedente, mostra di ignorare totalmente il problema che quelle scelte si proponevano di risolvere. Qualificare come “assassinio” il divieto dell’uso della Cassa integrazione nelle situazioni di cessazione dell’attività aziendale, posto col decreto n. 148 del 2015, annunciando il puro e semplice ripristino del vecchio regime, significa non aver messo a fuoco una delle piaghe peggiori del nostro vecchio sistema di protezione del lavoro. La Cig, per sua natura, è mirata a tenere i lavoratori legati all’impresa nei casi di crisi temporanea, disincentivandoli dal cercar lavoro altrove; quando invece non c’è alcuna possibilità di riapertura dell’azienda, attivare questo ammortizzatore sociale è un non senso. Peggio: significa tirare i lavoratori stessi in un vicolo cieco, intrappolandoli nella loro posizione di disoccupati. Si ricordano casi funesti di Cig erogata per 10, 15 e persino 20 anni di fila.

 

Se il ministro credesse davvero nel progetto del “reddito di cittadinanza”, logica vorrebbe che dicesse ai lavoratori: “Quando l’azienda chiude, non temete, scatterà per voi il reddito di cittadinanza”. Se non ci crede, logica vorrebbe che dicesse ai lavoratori “non abbiate timore, prorogheremo la NASpI, il trattamento di disoccupazione, cercando di migliorare i servizi di riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali esistenti e di procurarne dei nuovi”. Ma il ministro non vuole neppure cimentarsi col problema della transizione dal vecchio lavoro che non c’è più a uno nuovo. Perché pensa che sia più popolare promettere il ritorno della Cassa integrazione a vita: il sussidio a tempo indeterminato, senza alcun onere di partecipare a scomode iniziative mirate al reinserimento nel tessuto produttivo. Ha ragione Antonio Polito quando osserva che il governo “del cambiamento” è, in realtà, il governo del ritorno all’Italia degli anni ’70 e ’80. Senonché dall’Italia di allora ci separano i mille miliardi di maggior debito pubblico accumulatosi nel frattempo, proprio per questo modo profondamente sbagliato di intendere l’assistenza.

 

Più ancora che i modi tracotanti e i toni truculenti con cui il neo-ministro del Lavoro cerca visibilità mediatica, è preoccupante la sua presunzione di poter governare l’Italia ignorandone totalmente la storia lontana e quella recente.