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“Di Maio, è lei?!”. Perché sul deficit non possiamo fare l'accento francese

Luciano Capone

Dopo l’annuncio della Finanziaria 2019 di Macron, che porterà il deficit al 2,8 per cento del pil, la reazione del vicepremier grillino è stata immediata: facciamo anche noi come la Francia!

Roma. Molletta sul naso, patata in bocca e imbuto sopra: “Faccio l’accento francese?”. Ma dopo essersi camuffato, quando Di Maio assistito da Casalino chiamerà i funzionari della Megaditta di Bruxelles per convincerli a farci sforare il deficit, un po’ come Fantozzi e Filini che vogliono evitare la “coppa Cobram”, dall’altro capo del telefono lo riconoscerebbero subito: “Di Maio è lei?!”.

 

Dopo l’annuncio della Finanziaria 2019 di Macron, che porterà il deficit al 2,8 per cento del pil, la reazione del vicepremier grillino alle prese con le ristrettezze di bilancio, la scarsità delle risorse e quei pezzi di tecnici che “remano contro” è stata candida e immediata: facciamo anche noi l’accento francese! “La Francia per finanziare la sua manovra economica farà un deficit del 2,8 per cento – ha detto Di Maio –. Siamo un paese sovrano come la Francia. I soldi ci sono e si possono finalmente spendere a favore dei cittadini. In Italia come in Francia”. Purtroppo le situazioni sono molto differenti e dall’altro capo del telefono non faticherebbero a notarle. C’è innanzitutto da dire che lo scostamento della Francia dal deficit previsto per il 2019 è di pochi decimali di pil: nell’assessment inviato a maggio a Bruxelles era indicato al 2,4 per cento. Se quindi l’Italia volesse espandere il deficit della stessa intensità dovrebbe alzarlo dello 0,4 per cento rispetto allo 0,8 per cento che è l’obiettivo per il 2019 indicato nell’assessment di maggio inviato a Bruxelles. Il che vorrebbe dire deficit all’1,2 per cento, molto al di sotto dell’1,6 a cui punta Tria e al 2,8 di cui parla Di Maio.

 

Ma se anche volessimo considerare il valore del deficit e non la variazione rispetto al programma di stabilità, bisogna fare un’ulteriore precisazione. Il 2,8 per cento del 2019 della Francia incorpora uno 0,9 per cento di deficit in più a causa dell’impatto statistico della trasformazione del credito d’imposta per la competitività e l’impiego (Cice) in una riduzione permanente dei contributi sociali. In pratica nel passaggio al nuovo regime fiscale il governo francese si troverà, per un anno e solo per un anno, a “pagare” due volte il Cice (il credito d’imposta dell’anno precedente e lo sgravio fiscale dell’anno in corso). Senza questa misura una tantum, che comunque era già prevista e nota a Bruxelles, il disavanzo sarebbe dell’1,9 per cento. E infatti per il 2020, quando non ci sarà questa spesa straordinaria, il deficit francese si dimezzerà scendendo all’1,4 per cento. Diversamente dalla Francia, le misure che il governo gialloverde vuole introdurre sono spese strutturali come la controriforma delle pensioni e il reddito di cittadinanza che, non sono one shot, ma sono destinate ad aumentare strutturalmente negli anni successivi per gli effetti demografici e per la distorsione degli incentivi del mercato del lavoro.

 

Ci sono poi alcune evidenti differenze macroeconomiche. La prima riguarda la crescita. In Francia il pil è cresciuto dell’1,7 per cento nel 2018 e crescerà allo stesso tasso nel 2019. E’ qualche decimale sotto la media dell’Eurozona che è circa del 2,1 per cento. Ma l’Italia è messa peggio: la crescita è vista al ribasso dall’1,5 all’1,2 per cento nel 2018 e ancora più giù all’1 per cento nel 2019, la metà della media dell’Eurozona (2,1 per cento per il 2019).

 

Infine bisogna aggiungere una differenza di circa 30 punti di debito pubblico: l’Italia ha un debito al 131 per cento del pil mentre la Francia è sotto il 100 per cento (al 98, 5 per la precisione). Questa differenza peraltro si riflette su un altro fattore di diversità, che è il rating del debito e, di conseguenza, lo spread. La Francia, con uno spread di circa 30 punti, paga un rendimento dello 0,8 per cento, mentre l’Italia con uno spread di circa 230 punti, paga un rendimento del 2,8 per cento. Questo vuol dire che per noi, rispetto alla Francia, indebitarsi è molto più costoso e rischioso per la sostenibilità del debito pubblico.

 

Per questa serie di evidenti motivi, se anche il governo si mettesse a telefonare facendo l’accento francese, né la Commissione né i mercati abboccherebbero.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali