Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Non si gioca con il sangue del lavoro

Claudio Cerasa

Il decreto dignità, i negozi la domenica, la memoria che manca sui veri assassini delle riforme sul welfare. Perché Di Maio può passare alla storia come il primo ministro del Lavoro interessato non a creare ma a distruggere posti di lavoro

Ezio Tarantelli, Antonio Da Empoli, Marco Biagi, Gino Giugni e Massimo D’Antona sono cinque nomi che probabilmente non diranno nulla a Luigi Di Maio ma sono cinque nomi che dovrebbero ricordare al nostro ministro del Lavoro che in un paese come l’Italia trasformare in nemici del popolo coloro che hanno provato a riformare il mercato del lavoro è un’operazione che un politico con la testa sulle spalle dovrebbe evitare con tutte le sue forze e non invece incentivare con la stessa superficialità con cui può essere usato un congiuntivo su un social network.

 

Due giorni fa Luigi Di Maio, nell’indifferenza dei principali commentatori italiani, ha definito “assassini” i politici che tra il 2014 e il 2015 hanno avuto il coraggio di riformare il mercato del lavoro. E nel farlo, il capo politico del M5s non si è probabilmente reso conto di aver usato un linguaggio non troppo diverso rispetto a quello utilizzato in passato da coloro che hanno contribuito a criminalizzare mediaticamente alcuni eroi della politica italiana che hanno pagato con il sangue il prezzo delle proprie idee sui temi del lavoro. E’ andata così per Ezio Tarantelli, professore di Economia del lavoro alla Sapienza, che venne ucciso nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1985. E’ andata così per Antonio Da Empoli, funzionario del Dipartimento economico della presidenza del Consiglio, che nel 1986 venne ferito a Roma da un gruppo di terroristi. E’ andata così per Marco Biagi, docente di Diritto del lavoro e consulente di molti governi, che il 19 marzo 2002 venne ucciso a Bologna dalle Nuove brigate rosse. E’ andata così per Gino Giugni, uno dei padri dello Statuto dei lavoratori, che il 3 maggio 1983 venne ferito a Roma da un commando di brigatisti. E’ andata così per Massimo D’Antona, docente di Diritto del lavoro ed ex collaboratore del ministro Treu, che il 20 maggio del 1999 venne ucciso a Roma da altri tre brigatisti. Per mettere a fuoco l’inadeguatezza di un ministro che gioca con le parole su un terreno sul quale giocare con le parole significa giocare con la vita delle persone basterebbe passare in rassegna questo elenco di nomi.

 

Ma in verità l’approccio scelto dal ministro del Lavoro sulle politiche del lavoro preoccupa per un’altra ragione, che riguarda più la costruzione del futuro che il semplice rispetto della memoria. Luigi Di Maio, in nome della rimozione del passato, collante politico di ogni pensiero sfascista, rischia di passare alla storia come il primo ministro del Lavoro che si è dedicato nottetempo a trovare modi creativi non per creare posti di lavoro ma semplicemente per distruggerli. Di Maio è ministro da neppure quattro mesi ma nel giro di centodieci giorni al governo ha fatto approvare una riforma del lavoro che, combattendo la flessibilità al posto della disoccupazione, farà sparire, come stimato dall’Inps, 80 mila posti da qui ai prossimi dieci anni. Ha annunciato di voler trovare un modo per far chiudere i negozi la domenica, con un danno sull’occupazione che secondo i calcoli di Federdistribuzione sarebbe pari a circa 40 mila posti di lavoro in meno. E ha promesso di voler regalare agli italiani una riforma come quella del reddito di cittadinanza che rischia di scoraggiare l’attivazione lavorativa (perché accettare un lavoro che paga meno di quanto rende un reddito di cittadinanza?) e che potrebbe essere destinata persino ad alimentare il lavoro in nero (è difficile che l’avere un reddito di cittadinanza sia un disincentivo a rifiutare lavori in nero).

 

Il flusso dei dati che riceveremo nei prossimi mesi ci dirà quanto l’approccio scelto dal governo del cambiamento avrà un impatto negativo anche sull’occupazione, oltre che sulla credibilità dell’Italia, ma se davvero il ministro del Lavoro volesse occuparsi di lavoro senza distruggere lavoro dovrebbe pensare a come aiutare le imprese ad assumere sempre di più e non sempre di meno, dovrebbe pensare a come far crescere più i salari che i redditi di cittadinanza e dovrebbe chiedersi se ci sia più dignità in una riforma come il Jobs Act di Renzi che ha contribuito a creare 734 posti di lavoro in più al giorno tra il 2014 e la prima parte del 2018 (dati Istat) o in una riforma del lavoro che in nome della dignità i posti di lavoro piuttosto che crearli promette di demolirli (in coincidenza con il governo Salvini-Di Maio, secondo i dati Istat, l’Italia ha cominciato a perdere 1.131 posti di lavoro al giorno). Sparare contro la flessibilità è dunque un insulto alla memoria quando si parla di chi ha pagato con il proprio sangue le battaglie sul lavoro. Ma è anche un insulto alla logica quando l’odio ideologico contro la flessibilità porta a realizzare un paese in cui i posti di lavoro piuttosto che essere creati vengono semplicemente distrutti.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.