Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

Zingaretti e il rischio di una svolta popolare senza popolo

Luca Serafini

Il governatore del Lazio vuole mettere al centro della sua agenda da futuro segretario del Pd il rapporto con associazioni e territori. Giusto, ma occhio a scimmiottare la “politica dell’identità”

Indipendentemente dalla tempistica del congresso, il candidato più accreditato a diventare il successore di Maurizio Martina alla guida del Pd è senza dubbio Nicola Zingaretti.

Come Calenda, il governatore del Lazio ha richiamato alla necessità di andare oltre il partito nella sua forma attuale (diversamente da Calenda, senza andare oltre il Pd stesso) per dare vita a un fronte più largo, fatto di sindaci, associazioni, movimenti sociali, comitati di quartiere, per rompere l’isolamento del Pd e la sua immagine di “partito di palazzo”.

 

 

Una svolta di popolo, insomma. La proposta di Zingaretti ha il merito di aver compreso come il Pd, senza un allargamento della propria base sociale, non possa minimamente competere con le forze populiste, come i risultati elettorali testimoniano in maniera drammatica.

 

Tuttavia, rimangono alcuni dubbi sul metodo attraverso cui raggiungere questo “bagno di popolo”.

Cosa rappresentano infatti, nella storia recente della sinistra, i movimenti sociali e le associazioni? E soprattutto, può bastare la saldatura con queste realtà della società civile per riguadagnare una vocazione maggioritaria?

 

Un libro assai istruttivo a questo proposito lo ha pubblicato lo scorso anno il politologo americano Mark Lilla, professore alla Columbia University. Si intitola “L’identità non è di sinistra” (uscito in Italia per Marsilio), ed è stato scritto poco dopo la vittoria di Donald Trump per cercare di capire perché il vero bagno di popolo l’avesse fatto lui.

 

Lilla prende in considerazione la parabola storica della cosiddetta New Left, che negli Stati Uniti prese vita in particolare nei campus universitari a partire dagli anni ’60. La New Left americana, identificabile come una politica di sinistra fatta da movimenti sociali, universitari, associazioni extra-partitiche, ha svolto un ruolo fondamentale nella storia degli Stati Uniti. Ha dato un contributo decisivo ad alcune conquiste storiche sui diritti dei neri, degli omosessuali, delle donne. Se è riuscita a farlo, però, è perché almeno fino agli anni ’70 questi diritti non erano concepiti soltanto come diritti delle minoranze, ma venivano inseriti nel più ampio contesto dei “diritti di cittadinanza”.

 

I neri, le donne, gli omosessuali, avevano diritto ad essere cittadini americani come tutti gli altri. Lilla rileva però come, a partire dagli anni ’80, il movimentismo di sinistra si sia trasformato in qualcosa di molto diverso, ovvero in una nefasta commistione tra attività politica e forme di espressione e auto-definizione dell’io.

Lilla la chiama “politica dell’identità”: si comincia a confondere la politica con la ricerca di un significato interiore. Esce così di scena il tema della cittadinanza: da quel momento in poi, chi prendeva parte a un movimento sociale negli Usa pretendeva che non ci fosse più distanza tra ciò che provava come persona alla ricerca della propria identità e ciò che faceva come attivista politico.

Non si faceva più politica iscrivendosi a un partito, bensì andando alla ricerca di un movimento che avesse un significato profondo per la propria individualità.

 

Da quel punto in poi nasce un “romanticismo politico” che frammenta la società civile di sinistra in un pastiche fatto di fazioni sempre più piccole, “ossessionate da poche tematiche e impegnate in una corsa continua al rialzo ideologico”.

Delle forze, insomma, totalmente centrifughe, incapaci di saldare la lotta politica dal basso con la dimensione partitica e istituzionale. Ciò ha generato un analogo spostamento dell’asse della lotta politica dal tema dei doveri, della responsabilità verso gli altri, a quello dei diritti: “La sfida di John Fitzgerald Kennedy – Cosa posso fare per il mio paese? – che ha ispirato la generazione dei primi anni sessanta, divenne incomprensibile. La sola domanda significativa rimase di natura squisitamente personale: cosa deve il mio paese a me, in forza della mia identità?”.

 

Se all’epoca di Roosvelt i cittadini erano coinvolti nell’impresa collettiva di difendersi vicendevolmente dai rischi, la sinistra movimentista che si sviluppa dagli anni ’80 diventa per Lilla speculare alla santificazione dell’individualismo messa in opera da Reagan. La politica dell’identità, insomma, è un fenomeno ego-riferito e antipolitico, e costituisce un “reaganismo per gente di sinistra, un individualismo con una patina intellettuale, solo più sentimentale e meno bigotto”.

 

La conseguenza più importante, però, è che la politica dell’identità determina un progressivo scollamento tra le istanze della sinistra e quelle di una larga fetta di popolazione americana. Ci si dimentica di chi vive tra le due coste, ci si rifiuta, proprio in virtù della necessità di identificarsi tramite la politica, di entrare in contatto con le tante persone che vengono da contesti diversi e che vanno convinti, persuasi, non trattati con paternalismo né tantomeno disprezzati.

Il problema è che, appunto, il modo più rapido per definire la propria identità è quello della dialettica amico-nemico. Se la politica coincide con la ricerca dell’autenticità, la cosa più semplice da fare è definire il mio sé attraverso ciò che lo distingue da quello degli altri.

 

Ma la politica democratica, specie se aspira ad essere maggioritaria, dovrebbe essere persuasione, non esibizione di sé, capacità di articolare un discorso che faccia leva sui punti in comune, non sulle differenze.

“Il nostro deve essere un partito che ha a cuore le minoranze – diceva il senatore Edward Kennedy – ma senza diventare il partito delle minoranze. Prima di tutto, siamo cittadini”.

 

Riportando tutto questo alle sfide che attendono il partito democratico in Italia, e in particolare al modo in cui intende affrontarle Zingaretti, va forse rilevato come la base sociale non possa essere allargata solo coinvolgendo associazioni e movimenti, e per una serie di ragioni.

Innanzitutto bisogna chiedersi: quale e quanta parte di società rappresentano oggi movimenti e associazioni? Se un tempo infatti la base sociale dei movimenti di sinistra era composta dalla classe operaia, oggi si tratta perlopiù di persone appartenenti al ceto medio-alto borghese dei centri urbani. Riconnettersi con queste realtà significa fare un bagno di popolo? Le percentuali della sinistra extra-Pd alle ultime elezioni fanno sorgere non pochi dubbi in proposito.

Ciò non significa che non sia giusto, se non addirittura doveroso, tentare di far riguadagnare al Partito Democratico un radicamento sui territori che ha progressivamente perso. E tuttavia, ciò deve necessariamente accompagnarsi a un’agenda politica che rimetta al centro temi in cui tutti i cittadini possano riconoscersi.

 

Il Movimento cinque stelle, sia per ragioni di organizzazione che di “età”, non ha certo un radicamento così solido sul territorio, come dimostrano costantemente i risultati nelle elezioni locali.

Eppure, è bastato mettere la parola “cittadinanza” nella sua principale proposta in tema di economia (anche se, come sappiamo, è una mera operazione di cosmesi linguistica, perché non si tratta di un vero reddito di cittadinanza) per portare a sé milioni di elettori. Persone attratte (legittimamente, per chi ha poco o nulla) dalla prospettiva di un salario garantito, ma anche dall’appartenenza a un qualcosa di comune che quel termine immediatamente richiama.

 

Il Pd ha fatto cose egregie sui diritti nella scorsa legislatura, ma non ha formulato proposte (e continua a non formularne) che rispondano all’esigenza di protezione di larghi strati della popolazione italiana, i cosiddetti sconfitti della globalizzazione (e sono purtroppo tantissimi) che per sentirsi in qualche modo protetti e rappresentati hanno ceduto alla demagogia di Salvini e di Di Maio.

 

Come ha giustamente osservato Graziano Delrio, al di là dell’allargamento civico, il Pd deve ripensare a un’agenda politica fatta di temi e proposte che sia molto più inclusiva e molto meno divisiva. Deve convincere chi ha votato Lega e M5s che non è solo il partito delle associazioni e dei movimenti, ma anche quello del popolo, di chi per condizioni economiche sfavorevoli o gap culturali non colmati non è mai stato fuori dall’Italia in vita sua, e su cui una vaga retorica europeista priva di sostanza non farà mai presa.

Quanto possono aiutare in questo movimenti e associazioni, e quanto invece possono essere paradossalmente di ostacolo? Difficile a dirsi, ma il problema esiste e non è da sottovalutare.

 

Se le associazioni, come le vedeva Tocqueville nell’America di metà Ottocento, sono il contrafforte all’individualismo e costituiscono una forma di educazione politica e civica, possono certamente saldarsi con la politica di partito. Questo significa, però, saper scendere a compromessi, capire che le istanze portate avanti dal singolo movimento devono diventare comprensibili a tutti, non creare steccati, che devono essere articolate a partire da un’idea inclusiva di cittadinanza che non coinvolga solo gli strati medio-alto borghesi che costituiscono quello stesso movimento.

 

La storia della sinistra italiana insegna però che questa saldatura tra partito e società civile non è sempre facile. Questo anche perché molti movimenti e associazioni, nel corso degli anni, hanno portato avanti proprio quella che Lilla definisce politica dell’identità, ragionando nei seguenti termini: il partito mi deve qualcosa in forza delle mie istanze, degli interessi specifici che rappresento, della mia identità. Oltre questo non so andare, compromessi non so farne, tantomeno rinunce. Se non ottengo quello che voglio, tutto e subito, mi ritiro nella mia roccaforte ideologica e abbandono il partito (e il paese) al suo destino.

Questa però non è la società civile di Tocqueville, bensì quella di Hegel, un mero aggregato di istanze e interessi particolari (poco importa che per il filosofo questi interessi parziali concorressero inconsapevolmente all’interesse generale, secondo il tema Smithiano della “mano invisibile”).

 

Che tipo di società civile, di movimenti e di associazioni vuole coinvolgere Zingaretti? Ma soprattutto, chi accetterà di farsi coinvolgere, per quale motivo lo farà? Per portare avanti la propria singola istanza (in questo caso non ci sarà mai contenitore politico in grado di soddisfarle tutte) o per concorrere a dare al paese un governo che tenga conto dei bisogni di tutti, e in ogni caso migliore di quello che ci stiamo sorbendo ora?

Una parte della risposta a questa domanda la avremo quando il governatore del Lazio, esaurito il discorso sulla forma partito, sui tatticismi e la necessità di allargare, metterà sul tavolo le prime proposte propriamente politiche, chiarirà qual è la sua agenda, i temi che vuole affrontare e che ritiene prioritari.

 

 

Giuliano da Empoli, nel suo libro “La rabbia e l’algoritmo. Il grillismo preso sul serio”, parla di “populisti riluttanti” in riferimento agli elettori (tanti) che votano i Cinque Stelle non perché ontologicamente e irrimediabilmente populisti, ma perché privi di una reale alternativa. Si potrebbe usare questo tipo di analisi anche a proposito dei “sovranisti riluttanti”, tanta gente che può cambiare visione e prospettive se un partito di centrosinistra, magari col contributo delle associazioni, ne comprende i timori riuscendo a farli sentire parte di un progetto comune, andando in giro a spiegare ai neo-leghisti come stanno davvero le cose sui migranti, confrontandosi con chi la pensa diversamente da sé.

L’alternativa è continuare a convincersi che in Italia siano diventati tutti razzisti, perseverare nel tentativo di definire la propria identità politica “per differenza” dagli altri, insistere col paternalismo, e credere che l’opposizione alla deriva salviniana si faccia con le copertine di Rolling Stone.