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Guardare oltre le sbarre

Adriano Sofri

La visita di Salvini al carcere di San Gimignano sottende l’ostilità delle istituzioni nei confronti dei detenuti

Oggi, giovedì, Matteo Salvini visita il carcere di San Gimignano per portare la propria solidarietà agli agenti della polizia penitenziaria. Non è una cattiva idea solidarizzare con la polizia penitenziaria. Salvini lo fa a ridosso dell’imputazione a 15 agenti, di cui 4 sospesi dal servizio, del reato di cui all’art. 613 bis, quello fresco e controverso sulla tortura, aggravata per essere stata compiuta da pubblici ufficiali e procurando lesioni, a loro volta aggravate dalla crudeltà. Dunque non è difficile riconoscere l’essenza di questa solidarietà in una – come chiamare il contrario della solidarietà? Dissociazione, avversione, ostilità, bene che vada menefreghismo – in un menefreghismo o un’ostilità ai detenuti presunti oggetto di violenze, agli operatori del carcere che le hanno certificate, al procuratore e al giudice che le hanno indagate, agli stessi agenti penitenziari che le detestano e personalmente se ne guardano, e specialmente alle telecamere che le hanno riprese. E alla gente, o almeno a quella parte della gente che vorrebbe che le persone in divisa che tutelano la legge e la sua sicurezza non cedessero alla violenza, aggravata dal fatto di rivolgersi contro corpi umani spogliati di ogni tutela.

 

E’ da notare che l’indagine di polizia giudiziaria è stata condotta dallo stesso corpo della polizia penitenziaria, e chissà che Salvini voglia solidarizzare anche con questa parte. Il carcere di Ranza, isolato a 8 chilometri in un cupo fondovalle dalla meravigliosa San Gimignano, privo di relazioni con un contesto cittadino, difficilmente raggiungibile dai famigliari e dai visitatori, è un famigerato “carcere senza”. Per più di due anni senza un direttore, senza un comandante degli agenti, senza un vicecomandante. Senza acqua potabile, spesso, soprattutto d’estate. Senza. Quando, esploso il bubbone, il Dipartimento inviò finalmente una direttrice, costei si comportò immediatamente in modo tale da far rimpiangere il tempo in cui non c’era, e il ministero dovette affrettarsi a rimuoverla, trasferendola a far da vice alla direzione di Livorno, e Dio la mandi buona a quei livornesi. I pestaggi, ripetutamente denunciati, risalgono all’ottobre del 2018 e coinvolgono due ispettori capo, le autorità maggiori nella latitanza di governo del carcere. Il quale ha, per giunta, una sezione di alta sicurezza con la più alta proporzione di detenuti, e una di media sicurezza, dunque un bisogno ufficiale di attenzioni maggiore di quello di una casa di reclusione ordinaria. Il tunisino trentenne all’origine dell’inchiesta – che ha avuto fino all’ultimo paura di denunciare – era peraltro in galera per scontare un anno. I detenuti sono 358 su 250 posti teorici, ma mentre alcuni reparti sono semivuoti – il transito, la semilibertà – nelle sezioni più delicate il sovraffollamento è ancora più grave: 250 detenuti su 150 posti nell’alta sicurezza. Gli atti dell’indagine sono contenuti in ben 500 pagine di ordinanza, con riferimenti molteplici ai filmati delle telecamere e alle intercettazioni telefoniche e alla loro discrepanze dalle deposizioni, che hanno fatto ipotizzare anche l’accusa di falso per procurarsi l’impunità.

 

Ora, la discussione se il caso di San Gimignano sia un’eccezione o una condizione diffusa è pura retorica. Si tratta di imporre quanto più è possibile condizioni, materiali oltre che educative, che rendano sempre più difficile compiere abusi e brutalità. L’ufficio del Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà ha fornito, a ridosso del caso di San Gimignano, un elenco di altre situazioni in cui si è reso necessario il ricorso alle procure, e un’esemplificazione di raccapriccianti casi singoli. La figura del garante è, può essere, molto importante. Incombe, in Toscana, la nomina del garante regionale, per la scadenza dell’impegno di Franco Corleone.

 

Ci sono delle autocandidature presentate alla commissione pertinente del Consiglio regionale. Conosco meglio due nomi, i più titolati, se non sbaglio: mi scusino gli altri eventuali. Uno è quello di Giuseppe Fanfani, il cui curriculum è ingente e illustre: già deputato nazionale, sindaco di Arezzo, membro laico del Consiglio superiore della magistratura, sottosegretario, titolare di uno studio forense prestigioso nella sua città, perfino romanziere. L’altro è quello di Francesco Ceraudo, oggi in pensione dopo aver trascorso tutta la vita in galera come medico penitenziario e direttore del Centro clinico pisano. Mi chiedo perché una personalità come Fanfani aspiri a un tale incarico. Immagino che ritenga di poter mettere a frutto la conoscenza e l’esperienza di avvocato e di politico sensibile alle questioni dei diritti e delle pene. Di Ceraudo so perché ci tiene: per ambizione personale, perché rugge di non poter fare, perché non immagina per sé una realizzazione migliore di quella che lo ha sempre tenuto dalla parte dei detenuti e dei diritti, a cominciare da quello alla salute. Se il garante regionale dovesse essere una prestigiosa figura di giurisperito, Fanfani sarebbe l’ideale. Se dovesse essere uno intenzionato ad andare ad auscultare le pareti sudate e i pavimenti macchiati delle celle nude, uno capace di presentarsi all’improvviso a San Gimignano, così da essere temuto all’inizio, amato poi, allora quello buono è Ceraudo. Questa è solo una mia opinione, però anche lei fondata sull’esperienza, di sotto in su, per così dire.