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Perché non deve far paura lo stato responsabile che indaga su San Gimignano

David Allegranti

Parla il garante dei detenuti Sofia Ciuffoletti

Roma. “Tra guardie e ladri io sto con le guardie”, ha detto giovedì scorso il senatore Matteo Salvini in un comizio a San Gimignano, solidarizzando con i 15 agenti di polizia penitenziaria indagati per presunti maltrattamenti e torture nel carcere di Ranza nei confronti di un detenuto tunisino di 23 anni. I giornali hanno raccontato la vicenda con stupore, come se non fosse abbastanza chiaro che in carcere, purtroppo, la violenza non solo fisica abbonda.

 

“Eppure, che esista una struttura organizzata anche attraverso spedizioni punitive e pestaggi è in realtà storia quotidiana delle istituzioni totali quale è il carcere, come ci hanno mostrato alcune vicende come quella della condanna per le violenze nel carcere di Sollicciano, confermata in appello l’anno scorso”, dice al Foglio Sofia Ciuffoletti, direttore del Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, “L’altro diritto”, garante dei diritti dei detenuti di San Gimignano che ha seguito molto bene la vicenda delle presunte violenze. “Le istituzioni totali hanno una caratteristica, quella di essere impermeabili all’occhio esterno. Il carcere nasce con l’intento di rinchiudere la devianza e nasconderla alla società esterna. Per questo il carcere è invisibile”. Quello di San Gimignano, peraltro, lo è particolarmente. Lontano dal centro abitato, per anni senza una direzione fissa a causa della posizione remota e delle difficoltà di trasporto pubblico (e il vuoto di potere creato dalla latenza di una direzione stabile è altro elemento essenziale per contestualizzare i fatti sotto inchiesta), denso di problemi visto che ospita detenuti ordinari insieme a detenuti di alta sicurezza. “Il carcere di Ranza è infossato in una conca, sepolto alla vista, quasi segreto, un luogo da nascondere e dimenticare. E quanto più invisibile è un carcere, tanto più sono difficili, eppure essenziali, le denunce e il monitoraggio esterno. Invece, sottolinea Ciuffoletti, “la situazione delle carceri andrebbe conosciuta a fondo, al di là degli allarmi dell’ultimo momento. E’ un lavoro che è poco interessante per la politica e l’opinione pubblica, qualunque cosa voglia questa parola voglia dire oggi. Di carcere si parla unicamente in termini allarmistici, emergenziali”. O in termini strumentali, come fa Salvini appunto quando dice che sta “con le guardie”. 

 

 

Le prime a ribellarsi dovrebbero essere anzitutto le “guardie”, dice Ciuffoletti. “Sono ancora in corso le indagini preliminari, non sappiamo ancora quali saranno le responsabilità. Ci sono però dei referti, che mostrano che delle violenze ci sono state. E l’idea di fare sicurezza attraverso il dispositivo della violenza è controproducente non solo per i detenuti ma anche per la stessa gestione del carcere. Nel momento in cui un carcere viene gestito attraverso dispositivi di violenza, significa che è sfuggito al controllo. Significa che non puoi governarlo”. Per questo le guardie dovrebbero ribellarsi di fronte alla strumentalizzazione a colpi di selfie di Salvini e non ci dovrebbe essere scandalo nel fatto che qualcuno indaghi su presunte torture. “In uno stato di diritto, infatti, proprio questa vicenda dovrebbe esorcizzare la paura, dovrebbe, insomma, rassicurare tutte e tutti noi che viviamo a vario titolo in questo paese, che lo stato, con i propri agenti e funzionari, è, può essere, responsabile delle proprie azioni. Accountability la chiamano nella tradizione giuridica di common law. I funzionari dello stato, insomma, pure all’interno di una istituzione totale, segreta e impermeabile come il carcere, non godono di immunità e anche in Italia, l’habeas corpus, pilastro della civiltà giuridica occidentale, che garantisce l’inviolabilità personale e ne sancisce le guarentigie, è fonte di diritti effettivi e traducibili in questioni pubbliche”. In Italia, invece, “l’impressione atavica e tradizionale della impossibilità di chiamare a responsabilità lo Stato e i suoi funzionari ha generato il pensiero magico secondo cui la richiesta di onestà e incorruttibilità ex ante di politici e funzionari pubblici garantisse una patente di innocenza vita natural durante. Se chiediamo a gran voce l’onestà, questa partorirà i suoi frutti per auto-generazione”. Il punto, invece, “non è tanto sfoggiare patenti di onestà, ma riuscire a far uscire una storia di quotidiana violenza all’interno delle patrie galere e trasformarla da guaio privato di qualche indifendibile criminale in una questione pubblica, attraverso la proceduralizzazione del conflitto e la riaffermazione dei diritti. Ciò che, invece, stupisce e mostra che la realtà, in una buona percentuale di casi, è controfattuale, è che a denunciare i fatti siano stati alcuni detenuti italiani, come nel caso di San Gimignano, e che la presunta vittima sia una persona straniera. Aiutata, a casa nostra”. Insomma, il fatto che lo Stato indaghi dovrebbe rassicurare non spaventare. “Salvini dice apoditticamente che fra ‘guardie e ladri’ sta con le guardie. Ma qui lui deve scegliere casomai fra lo stato e il non stato, tra lo stato responsabile e quello immune da responsabilità. Io voglio stare in uno stato che è responsabile delle proprie azioni, anche penalmente”.

 

Il problema del ragionamento di Salvini è che “egli stesso espone necessariamente a una gogna mediatica quelle stesse persone che a parole vorrebbe supportare. Quando ci sono 15 persone sotto inchiesta non le esponi alla gogna né offri alcun supporto ex ante come capo politico dell’opposizione. Il supporto lo puoi dare agli inquirenti, ai magistrati di sorveglianza, alla direzione e all’area educativa e sanitaria del carcere, ai garanti dei diritti dei detenuti. Insomma, in senso lato all’organizzazione della giustizia. Altrimenti non fai alcuna differenza, in un corpo di polizia come quella penitenziaria, fra chi commette violenze – e ci sono – e chi non le commette – e sono la maggioranza”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.